
Nel 1948, a soli tre anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, le potenze europee superstiti (Francia, Inghilterra, Belgio e Paesi Bassi) si diedero appuntamento a Bruxelles, per discutere l’opportunità di una prima, embrionale comunità europea.
Un anno dopo si siglava a Washington il Patto Nord-Atlantico della NATO, dando il via ad un programma di cooperazione militare e politica che avrebbe dovuto assicurare in primo luogo la protezione militare del Vecchio Continente.
Protezione dall’URSS, certo, ma anche dal risentimento reciproco delle nazioni disposte sullo scacchiere europeo: per la prima volta dalla pace di Westfalia (1648), si cercava un modello istituzionale che potesse garantire una pace duratura, in un continente su cui gravava (e grava ancora oggi) la memoria dei conflitti secolari e la proporzione delle perdite umane e materiali registrate al di qua del Reno.
Oggi, l’URSS non esiste più. O non esiste ancora, se consideriamo le manovre decise a Mosca in questi anni come un primo passo di natura esplorativa, in vista della ricostruzione di un impero inter-statale o federale opposto alle ragioni dell’Occidente. L’Ucraina in primis, ma non si dimentichino il precedente militare in Georgia e le trattative con la dittatura bielorussa.
Su un punto, comunque, restiamo consapevoli: in Europa si agitano 28 bandiere diverse, e oggi come ieri i problemi restano simili a quelli del 1948.
A quest’Europa della moneta unica e di Schengen (primati di integrazione internazionale che vanno riconosciuti in primis all’UE) ancora manca un sistema di difesa e di security-building completamente integrato nell’architettura comunitaria.
In altre parole, l’UE è ancora una composizione di Stati che perseguono interessi nazionali e sono soltanto impegnati – nella veste di Stati sovrani – con altre entità statali (come gli USA, nell’esempio della NATO): è il motivo per cui esiste l’esercito italiano e non quello europeo, ma è anche la ragione per cui esiste il ministro degli Esteri francese o belga e non un refererente unico a Bruxelles.
Per la verità, gli europei (sempre timorosi di fronte alla cessione della propria sovranità all’Unione) hanno istituito la controversa figura dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ruolo di cui oggi è incaricata l’inglese Catherine Ashton (nella foto a lato).
Una soluzione? Al contrario, perchè la creazione un “ministro” degli Esteri di questo genere svela almeno tre aspetti problematici:
- l’impossibilità istituzionale di perseguire una politica estera di stampo unitario;
- la scarsità di strumenti politici a disposizione del Servizio per l’Azione Esterna europeo (tra i settori di debolezza causati dalla stessa natura inter-statale dell’Unione);
- e il nodo più problematico, che risiede nella dipendenza dell’Unione dai mezzi militari (e, quindi, dalla volontà politica) di una NATO che è geneticamente a trazione USA.
L’Alto Rappresentante, insomma, deve poter raggiungere – con mezzi limitatissimi – un obiettivo politico che rappresenti un delicato equilibrio di tutte le istanze interne ed esterne all’Unione. Deve poi tenere conto di tutte le linee guida di espansione geografica e di tutela dei diritti umani e civili che animano la politica del gigante europeo. Un rebus, insomma.
In questi 70 anni l’Europa è tornata ad impersonare il ruolo di player globale: oggi sfida, in proporzione economica e politica, tutte le altre potenze – Stati Uniti e Cina compresi.
L’Unione non è riuscita a cogliere la tragica opportunità dell’11 settembre per alzare le mura di una “fortezza” democratica, isolazionista e invalicabile dall’esterno. Al contrario, la difesa europea dagli anni 90 ad oggi è stata ridotta alla sola azione diplomatica esterna, operata nei confronti dei Paesi esteri sotto la forma di accordi bilaterali, di cooperazione e di vicinato. Sopratutto con Africa ed Est Europa, ma anche con realtà territoriali distanti dal Vecchio Continente.
Stringere amicizia, anche per non dover imbracciare le armi: una volontà che si mescola alla necessità, per un gigante pluri-statale pressochè privo di capacità militari.
È la diplomazia l’unica arma spendibile di quella che viene definita – non senza ottimismo – la “potenza civile” o “potenza gentile” dell’UE: attraverso il raggiungimento dei requisiti giuridici comunitari (che trovano un comune denominatore nei diritti garantiti nelle democrazie avanzate), i Paesi associati e partner dell’Unione trovano nell’UE qualcosa più di un interlocutore economico e politico. Qualcosa di vicino ad un centro di gravità degli affari internazionali che – almeno in teoria – traccia una rotta per risolvere i propri problemi nazionali attraverso soluzioni condivise e riutilizzabili, nell’ottica di uno sviluppo che vada al passo dei processi di inclusione e interdipendenza dettati dalla globalizzazione.
Nell’Est post-sovietico, le più recenti storie di successo dell’Unione rispondono ai nomi di Romania e Bulgaria – già sul cammino dell’omologazione giuridica e vicine all’ingresso definitivo nel bacino economico inaugurato a Maastricht.
Ma non sempre bastano le negoziazioni per chiudere un occhio sui propri limiti. Il caso ucraino (fallite le consuete trattative bilaterali con l’ormai deposto premier filo-russo Viktor Yanukovich) sta mettendo in evidenza le contraddizioni più gravi dell’Unione, che passano anche dagli interessi economici dei Paesi coinvolti (chi vuole fare la guerra al signore dell’energia, Vladimir Putin?) fino alla contraddizione (che genera insofferenza negli stessi cittadini) di una dirigenza continentale spietata sul terreno della politica economica interna e subito arrendevole appena varcato il confine di casa propria.
Ostacoli che si vanno a sommare ai limiti politici e militari di cui sopra: ostacoli da non sottovalutare, perché rischiano di ridimensionare l’obiettivo di pace continentale perseguito dalla “potenza gentile”, consegnando oggi l’inerme Ucraina – nell’apparente attendismo di USA e NATO – ad una primavera che assomiglia ad un buio inverno moscovita.
Matteo Monaco
@twitTagli