L’Europa degli anni ’30, l’Europa di oggi: la destra populista nel suo habitat naturale

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Ci siamo lasciati qualche giorno fa con un articolo che analizzava l’esorbitante crescita nei sondaggi dei partiti di estrema destra sociale. La vera domanda è: perché?
Senza diventare per forza post-ideologici, per quale motivo quel tipo di destra (e non un altro) genera consenso nell’Europa continentale?
Per tentare di analizzare la situazione potrebbe essere utile imbastire un parallelo: un confronto tra le tendenze geopolitiche ed economico-sociali di questi mesi e il paradigma storico di riferimento, vale a dire gli anni ’30 del 1900 (quando la destra nazional-socialista governava in Germania, Italia, Spagna, Portogallo).
Nonostante l’impostazione dittatoriale, lo sterminio degli ebrei e la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, una parte di elettorato rimpiange, se non direttamente quei tempi, almeno quell’impostazione di pensiero. Autoritaria, patriottica, protezionista, xenofoba. E i partiti di destra sociale, pur senza evidenti ed espliciti richiami, su quella linea si collocano.

Uno dei principali problemi, oggi come allora, è la Germania unita – e gli squilibri che tale situazione provoca. 
C’è qualche storico tanto lucido quanto pessimista che identifica l’equilibrio ottimale europeo in quello stabilito – addirittura! – dalla Pace di Westfalia (anno del Signore 1648: vedi mappa seguente).
Secondo costoro, qual è (meglio: quale fu) l’equilibrio ottimale per il Vecchio Continente? Francia, Spagna, Impero Asburgico e Inghilterra come potenze egemoni; Russia proiettata sull’egemonia nord-asiatica; Italia lottizzata (e sotto diverse sfere di influenza: il nord’ovest alla Francia, il nord-est all’Austria, il sud e la Lombardia alla Spagna, con lo Stato della Chiesa a far da cuscinetto); soprattutto, la Germania smembrata.
Smembrata in maniera scientifica, per di più: in tanti regni (Baviera, Prussia, Sassonia) incapaci di prevalere uno sull’altro e con il suo cuore (la Renania e la Westfalia) lasciato nell’indeterminatezza comunale.
Perché questa attenzione alla separazione della Germania? Per un fattore geopolitico, appunto: la geografia europea prevede a ovest la catena dei Pirenei, ad Est la catena degli Urali, a sud le vette svizzere. Delimitata da questi ampi confini si trova una lunga pianura, ricca di corsi d’acqua e miniere, con al suo centro la Germania. 
Se la Germania è unita, Russia e Francia soccombono; se la Germania è divisa (e dunque non riesce a sfruttare appieno le sue immense risorse naturali) il resto del continente prospera.

Secondo questa visione, il Patto di Versailles del 1919 commise un grande errore: lasciare la Germania intatta. Quell’assetto, assieme agli irragionevoli debiti di guerra, fu una delle cause scatenanti della Seconda Guerra Mondiale.
Un “errore” che, sempre rimanendo in quell’ottica, ha ripetuto recentemente l’Unione Europea nel 1989: quando cadde il Muro, e alla Repubblica Federale Tedesca si aggiunse la DDR, il peso della Germania torno a gravare nella sua interezza sugli equilibri continentali.
E non è una visione del tutto campata per aria: una delle sfide dell’Europa moderna, in effetti, è armonizzare la potenza demografica ed economica tedesca con il resto del continente. Se la locomotiva tedesca è così potente, bisogna trovare un modo per adeguare alla sua velocità il resto del convoglio (oppure trovare impostazioni politiche per non farla correre a tutta velocità).

Il secondo parallelo tra l’Europa anni ’30 e l’Europa moderna si può ravvisare aprendo i libri contabili: in entrambi i casi il mondo intero si è trovato di fronte ad una crisi economica devastante (il crollo di Wall Street del 1929 da una parte; la crisi dei mutui subprime del 2008 dall’altra). 
Curiosamente, in entrambi i casi la recessione ha avuto origine negli Stati Uniti, ma ha flagellato maggiormente l’unico competitor sovranazionale degli USA, ossia l’Europa.
Difatti la Repubblica di Weimar non seppe risollevarsi dal pendolo tra inflazione galoppante (negli anni ’20) e deflazione recessiva (negli anni ’30), e dunque è giustificata l’apprensione degli analisti internazionali: la speranza è che le istituzioni europee attuali siano sufficientemente valide per resistere all’urto.

Il terzo parallelo riguarda la xenofobia, la paura degli stranieri e in generale dei diversi: fu questo uno dei tasti meglio utilizzati dal Führer – se così si può dire – per cementare lo stremato popolo tedesco in una dialettica di opposizione contro l’etnia giudea.
Anche oggi i conflitti sociali vengono polarizzati in una dialettica “noi vs loro“: ma visto che l’orrore degli stermini di massa ha reso impraticabile la strada della rozza discriminazione etnica, si è scelta una strada più raffinata e spendibile, quasi politico-giuridica.
La differenza non è più (meno male) “ontologica” (tu sei il nemico in quanto ebreo, tu sei nemico in quanto zingaro, o in quanto francese eccetera) ma è giuridica: la differenza si traccia tra immigrati regolari e irregolari, tra passaporti e permessi di soggiorno. Se lo straniero “in regola” viene tollerato, l’obiettivo politico si sposta sugli irregolari. Ed è un altro tasto su cui battono i populismi di destra.

Ultimo punto di contatto è la debolezza istituzionale. Se sono pochi i Paesi vittime di una crisi politica interna paragonabile alla nostra (Presidente del Consiglio malsopportato da una frangia del suo stesso partito, opposizione delegittimata, forze emergenti prive di una visione politica di ampio raggio: a nostro braccetto, in questo caso, si intravede solo la Grecia), l’inconsistenza delle strutture di governo nazionali di un tempo (la già citata Repubblica di Weimar, ma anche la Terza Repubblica Francese e il Regno d’Italia) si è spostata su un piano più ampio.
Insomma: se negli anni ’30 funzionavano male gli Stati, oggi funziona male il sovra-Stato, e cioè l’Unione Europea.
Ma se al tempo si cercava l’uomo forte al comando per farci “condurre” (Duce, Führer, Caudillo: l’etimologia è sempre quella) fuori dalle paludi, oggi ci si orienta verso una localizzazione degli interessi: la Francia ai francesi, l’Italia agli Italiani e così via.

È seguendo queste ricette, questi insegnamenti storici, che i partiti di destra sociale europei perseguono un obiettivo – a parere di chi scrive – assolutamente antistorico: il localismo (e qui, poco da fare, interviene pesantemente il pensiero No-Global di fine anni ’90) viene visto come risposta non solo dignitosa, ma anche auspicabile. In un mondo che – piaccia o non piaccia – globale lo è diventato, l’errore di prospettiva è marchiano. E del resto lo sanno loro stessi: pur rimanendo nazionalisti e localisti, per avere voce in capitolo hanno pensato bene di… raggrupparsi in organizzazioni sovranazionali, per cercare di costituirsi come realtà fattuale all’interno del prossimo Parlamento Europeo!

Restringendo il campo di osservazione, balza all’occhio come in Italia il trend sia anomalo: non abbiamo realtà come il Front National o come il Freiheitliche Partei Österreichs o come il Partito delle Libertà olandese. Né abbiamo un partito indipendentista e conservatore pregnante come l’UKIP britannico (che sarà la vera sorpresa di queste elezioni, segnatevelo sul taccuino).
In effetti, il partito iper-localista per eccellenza, la Lega Nord, deve scontare il prezzo di tre fattori: l’essere un partito “vecchio” (25 anni sulla scena politica di un Paese giovane come l’Italia sono comunque tanti), e dunque di avere in un certo senso precorso fin troppo i tempi; paga poi le pesanti inchieste giudiziarie di qualche mese fa, che hanno inserito la Lega nel calderone di “quelli che rubano”, almeno a livello di immaginario collettivo; infine paga la pesante guerra di successione per sostituire il Lider Maximo caduto in disgrazia, ossia il fondatore Umberto Bossi (destino che tocca, presto o tardi, a tutte le leadership carismatiche).

Ma a spostare l’ago della bilancia in Italia provvede il Movimento 5 Stelle: il polo giallo coniuga massicce dosi di rabbia, populismo, antieuropeismo, istanze green e nazionalismo in una miscellanea decisamente trasversale che pesca consenso sicuramente nella sinistra più radicale, ma trova convinti sostenitori altrettanto sicuramente anche nell’elettorato che – in altri Paesi – voterebbe per una destra forte e organizzata. Tutto questo, almeno in Italia, toglie spazio alla destra sociale tradizionalmente intesa.

Umberto Mangiardi
@twitTagli

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