In un recente articolo sulla rivista Foreign Policy, Ward Wilson ipotizza un parallelismo tra la nostra epoca e il periodo che precedette la Prima guerra mondiale: crisi di governo, tensioni internazionali, attentanti terroristici e malcontento sociale attraversarono quegli anni fino a conflagrare in un conflitto globale e totale.
Come tutti i paragoni storici, anche quello di Wilson va preso con le pinze.
La Storia – sosteneva infatti Mark Twain – non si ripete mai nello stesso modo; eppure talvolta fa rima con se stessa.
Nelle pieghe del passato possono dunque celarsi paradigmi utili per il presente.
Ed è così che ho ripensato a Stefan Zweig, scrittore viennese, ebreo, nato alla fine dell’Ottocento nell’Impero multiculturale degli Asburgo, il quale raccolse nella sua autobiografia, Il mondo di ieri, i ricordi di una giovinezza trascorsa nella Belle Époque, il più lungo periodo di pace (1871-1914) che si ricordasse da generazioni in Europa.
Scriveva Zweig:
«Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede della irresistibile forza conciliatrice della tolleranza.
Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi. […]
Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l’ideale comune di milioni e milioni. […]
Anche nel campo sociale si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all’individuo; la giustizia veniva amministrata con maggior senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più insuperabile».
Lo spirito del nostro tempo sembra echeggiare in queste parole che rievocano un’ingenua ma felice età dell’ottimismo, di lì a poco spazzata via dai cataclismi delle due guerre mondiali. A provocarne la distruzione fu la ribellione delle masse, per citare un celebre saggio di Ortega y Gasset, l’irruzione violenta e iconoclasta sulla scena politica di milioni di individui fino ad allora estromessi dal potere.
Forse si riesce meglio a comprendere la ricomparsa prepotente dell’estrema destra nelle nazioni europee, come un demone addormentato risvegliato e richiamato dall’oblio, respirando l’atmosfera di decadente torpore della Vienna del giovane Zweig – in un mondo fragilmente sospeso sugli equilibri fissati nel 1815 nel Congresso di Vienna e dunque inevitabilmente prossimo alla fine.
Di sicuro, quello stralcio letterario è più verace del registrare, in maniera un po’ algida e semplificata, le cause dei successi dei partiti “neri”: il desiderio di un localismo identitario contro la globalizzazione spersonalizzante, la crisi economica e l’impoverimento delle classi medie, la percezione di un’immigrazione incontrollata, il deficit democratico delle istituzione europee, il declino ideologico delle forze politiche tradizionali.
Il voto all’estrema destra ha in un certo senso a che fare con il presagio strisciante che, come la Belle Époque, anche la nostra epoca sia in procinto di morire, perché una parte crescente della società sente ormai di non condividerne i valori e aspira così a distruggerla per rifondarla su nuove basi.
A ben guardare, la gente non sceglie l’estrema destra per mera rabbia.
Vi aderisce perché sente il peso delle aspettative crollarle addosso: l’aspettativa di un tenore di vita superiore a quello dei propri genitori, le aspettative di una società sempre più competitiva, e soprattutto l’aspettativa che si è purtroppo rivelata la più illusoria di tutti, quella di un’Europa unita e solidale, sciolta «in un comune senso di umanità».
È la delusione derivante da un carico sproporzionato di aspettative che sta provocando l’ascesa dei partiti postfascisti. Rimediare a questa delusione sarà la sfida più ardua dei nostri tempi.
Jacopo Di Miceli
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