
Dimenticate la democrazia parlamentare. Oggi viviamo nell’epoca della “democrazia conforme al mercato”, o, se masticate un po’ di tedesco, della Marktkonforme Demokratie.
L’espressione è stata coniata dalla cancelliera Angela Merkel in un’intervista del settembre 2011 alla radio pubblica tedesca: «Noi viviamo certo in una democrazia, una democrazia parlamentare; perciò la legge di bilancio è un diritto centrale del parlamento. Comunque troveremo le strade, nel quadro esistente della collaborazione parlamentare, per far sì che ciò nonostante sia conforme al mercato» [1].
Alla base del concetto espresso da Frau Merkel vi è l’idea, ormai ben inculcata nelle nostre teste, che da una parte il rigore dei conti pubblici e dall’altra le opinioni dei mercati finanziari debbano guidare l’azione riformatrice dei governi nazionali.
Forse sarà inutile, ma ricordiamolo ugualmente: nessuno ha eletto i mercati finanziari né, tanto meno, la spettrale Troika, composta da Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione Europea, che in questi anni ha imposto l’austerity a diversi paesi dell’Eurozona.
In entrambi i casi si tratta di entità sovranazionali in cui agisce un’élite, strettamente connessa ai poteri economici, che passa con disinvoltura dagli incarichi pubblici a quelli privati e viceversa, accumulando una smisurata influenza sull’intero processo decisionale delle nostre democrazie.
Perciò viene naturale domandarsi: quando Mario Draghi, pochi giorni fa, ha sollecitato gli Stati a «cedere la sovranità» per le riforme strutturali, a chi si stava riferendo? A chi vorrebbe che fosse ceduta la sovranità statale?
Di certo non al Parlamento Europeo, il solo organismo europeo eletto dai cittadini, impantanato dai regolamenti comunitari in una palude di cronica irresolutezza sulle questioni che contano.
Al contrario, è assai plausibile che il presidente della Bce stesse parlando proprio di quelle entità elitarie che abbiamo appena citato e verso cui anche la cancelliera Merkel vorrebbe piegare la democrazia parlamentare.
Dalle pagine de La Repubblica è prontamente giunto il plauso di Eugenio Scalfari, che già alcuni giorni prima della dichiarazione di Draghi aveva suggerito che l’Italia si sottoponesse al controllo della Troika, una presa di posizione spalleggiata anche da altri due articoli del quotidiano romano: nei paesi in cui è intervenuta la Troika, come la Spagna, – si dice –, la ripresa economica è arrivata – (evidentemente anche il tasso di disoccupazione al 24,5%, dati Eurostat, e l’emigrazione giovanile di massa fanno parte della ripresa…) – e, di conseguenza, «arroccarsi in una difesa a oltranza di una sovranità che non abbiamo saputo esercitare in tempo non ci servirebbe a niente».
Nel suo editoriale di domenica 10 agosto Scalfari aggiungeva, poi, delle ermetiche considerazioni di natura politologica: «Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l’oligarchia».
Scalfari non precisa che cosa intenda per “sovranità sociale”, ma se è la stessa sovranità che intende Draghi, allora non c’è di che star tranquilli.
E a poco servono le successive rassicurazioni di Scalfari, per il quale «l’oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, […] deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite» e che essa «è il solo vero modo di affidare la società ai migliori».
Un’oligarchia resta tale in qualunque modo venga eletta, e anzi, a ben guardare, la debolezza delle attuali democrazie rappresentative risiede esattamente nell’essersi avvicinate troppo al modello oligarchico, finendo così con l’incarnare più gli interessi dei pochi (in particolare dei grandi gruppi bancari, finanziari e industriali) che dei molti.
Senza la crisi della rappresentanza politica difficilmente i partiti di Grillo, della Le Pen, di Farage e di Wilders avrebbero ottenuto successo.
Sostenere una riduzione della sovranità statale a favore delle oligarchie sovranazionali potrebbe, quindi, sembrare autolesionistico alla luce del magma populista che si agita in Europa, ma non nella prospettiva delle élite ultracapitaliste.
Queste, infatti, paiono aver recepito appieno gli insegnamenti di uno dei massimi esponenti della teoria neoliberista, Milton Friedman (foto), che – come scrive Naomi Klein in Shock Economy –
«comprendeva bene che, in circostanze normali, le decisioni economiche sono prese in base ai conflitti fra interessi divergenti: i lavoratori vogliono impieghi e aumenti salariali, i datori di lavoro desiderano poche tasse e meno regole, e i politici devono fare un bilancio tra queste forze in competizione. Tuttavia, se una crisi economica è abbastanza grave – un crollo della valuta, un crac del mercato, una forte recessione – mette in secondo piano tutto il resto, e dà carta bianca ai leader per tutto ciò che è necessario (o ritenuto tale) spacciandola per risposta a un’emergenza nazionale.
Le crisi sono, in un certo senso, zone franche della democrazia: momenti in cui le regole normali del consenso vengono sospese» [2].
L’imposizione di misure “lacrime e sangue” che altrimenti la maggioranza non avrebbe mai accettato e il trasferimento dei poteri democratici a un’autorità superiore, meglio se non elettiva, sono dunque parti essenziali del neoliberismo, la dottrina di destra che da più di trent’anni domina l’economia.
È quindi da qui, dalla convinzione che la democrazia parlamentare non sarebbe da sola in grado di attuare quelle riforme gradite alle élite economiche globali, che discende questo rigurgito oligarchico di cui si sono fatti promotori Draghi e Scalfari e che, giustamente, economisti come Jean-Paul Fitoussi e Paul de Grauwe hanno giudicato come «lo scenario peggiore immaginabile» per l’Europa e come «un’intromissione assolutamente inaccettabile» nella vita politica degli Stati (fonte: La Repubblica del 9 agosto).
D’altronde, da decenni i conservatori riflettono su come dare una nuova veste alla democrazia in modo che calzi loro a pennello. Nel 1975 tre studiosi redassero un rapporto, intitolato eloquentemente La crisi della democrazia, per la Commissione Trilaterale, un pensatoio (think-tank) conservatore cui alcuni attribuiscono erroneamente finalità cospiratorie.
I saggisti rilevavano un sovraccarico di rivendicazioni popolari alle istituzioni politiche che stava rendendo “ingovernabili” le democrazie occidentali.
In Europa erano appena terminati gli anni delle proteste sindacali e dei movimenti giovanili, mentre in America vi erano state le lotte per i diritti civili degli afroamericani, le manifestazioni pacifiste e, infine, il Watergate.
I governi e i parlamenti, a giudizio dei tre estensori, non riuscivano più a essere aggregatori di interessi (quelli di cui parla Naomi Klein) a causa dell’eccessiva partecipazione delle masse alla vita politica.
Soprattutto, secondo l’americano Samuel Huntigton (foto sotto), poi diventato celebre come il teorico dello scontro di civiltà (Islam-Occidente), alle democrazie mancava uno scopo comune, ora che sia la religione sia il nazionalismo sia l’ideologia avevano perso attrattiva.
«In una democrazia, però, il fine non può essere imposto con un ordine dall’alto», scriveva Huntington, «né scaturisce dal frasario dei programmi di partito, dai messaggi presidenziali o dai discorsi dal trono. Non può essere, invece, se non il prodotto della percezione, comune ai gruppi importanti della società, di una seria minaccia alla loro prosperità e della comprensione che tale minaccia pesa su di tutti indistintamente. Quindi, in tempi di guerra o di catastrofe economica, i fini comuni si identificano facilmente» [3].
Ecco che ritorna il tema della crisi economica come pretesto per approvare quelle riforme neoliberiste (riduzione dei salari, abbattimento del deficit e del debito pubblico, tagli alla spesa sociale) che le masse rifiuterebbero in condizioni di normalità.
Bisognava, dunque, porsi l’obiettivo della “governabilità” delle democrazie, un concetto che non a caso va molto di moda in questo periodo, a scapito, inevitabilmente, della rappresentatività. Come realizzarlo? Huntington aveva la soluzione:
«Al Smith osservò una volta che “l’unica cura per i mali della democrazia è una maggiore democrazia”. Dalla nostra analisi traspare che l’applicazione di questa cura oggi equivarrebbe ad aggiungere esca al fuoco. Invece, taluni dei problemi di governo degli Stati Uniti scaturiscono oggi da un eccesso di democrazia. […] Ciò che occorre alla democrazia è, invece, un maggior grado di moderazione» in quanto «il funzionamento efficace d’un sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi» [4].
Inutile aggiungere che in queste riflessioni c’è ben poco di democratico. In quegli stessi anni, infatti, la scuola di economisti neoliberisti stava alacremente collaborando al rafforzamento delle giunte militari in America Latina.
Fu solo con Ronald Reagan e con Margaret Thatcher che i neoliberisti scoprirono di poter applicare le proprie idee anche nelle democrazie, ed è stato solo a partire dalla crisi scoppiata nel 2007 che essi ebbero definitivamente la meglio in Europa, purtroppo con la placida e, talvolta, volenterosa assistenza dei partiti socialisti.
Nel maggio 2013 Jp Morgan, tra le banche d’affari americane più attive nella speculazione finanziaria, ha redatto un documento in cui criticava le costituzioni antifasciste di paesi come Italia e Spagna, ritenute troppo impregnate di una «forte influenza socialista», che si traduce sotto forma di «tutele costituzionali dei diritti di lavoratori» o come «diritto di protestare nel caso di cambiamenti sgraditi allo status quo politico». Non smentiscono mai la loro natura, i neoliberisti.
Per affermare il principio democratico “no taxation without representation” (nessuna tassa senza rappresentanza) gli americani combatterono una guerra d’indipendenza. Oggi, invece, la demolizione di questo principio viene pubblicamente incoraggiata ed è già all’opera (dal Fiscal Compact al famoso tetto del 3%).
In questo quadro, perciò, le parole della cancelliera Merkel e del presidente Draghi (e, in seconda analisi, anche quelle di Scalfari) rappresentano una grave offesa alle democrazie parlamentari.
Oggi ci troviamo così nella spiacevole situazione di essere stretti tra il martello del neoliberismo e l’incudine dei partiti di estrema destra, come il Front National di Marine Le Pen.
Infatti, il neoliberismo, per citare il sociologo Luciano Gallino, «non rappresenta una nuova fase della democrazia liberale; più verosimilmente va considerato come il suo affossatore»[5]; quanto ai progetti dei partiti populisti, della cui esistenza, come se niente fosse, Juncker e Draghi si sono improvvisamente dimenticati continuando con tenacia a perseguire il dogma dell’austerità neoliberista, basta leggere il programma del Front National per capire quali siano le loro intenzioni (ad esempio, reintroduzione della pena di morte e riarmo militare della Francia).
Crisi economica e crisi della democrazia andavano a braccetto in Europa anche negli anni Venti e Trenta. In Germania fra la prima crisi economica per inflazione e la seconda per deflazione intercorse un decennio (1920-1930). Le crisi economiche sono processi lunghi di cui solo col tempo si vedono gli effetti. Infatti, Hitler non prese il potere da un giorno all’altro, ma ci impiegò quattordici anni.
L’illusione dei neoliberisti (che molte analogie hanno con i liberisti di ottanta anni fa, poi spazzati via dal nazismo) è di poter gestire le masse sottraendo democrazia. Al contrario, ne servirebbe di più. Ma è difficile che lo capiscano (o, meglio, lo vogliano).
Il problema, per noi tutti, è che prima o poi le masse, accecate dalla disperazione, si ribellano e sono disposte a tutto per uscire dalla crisi, persino ad abbracciare un dittatore e a rinunciare alla democrazia.
[1] La citazione è tratta da Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013.
[2] Naomi Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, trad. it. Rizzoli, Milano 2013.
[3] Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington, Joji Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, trad. it. Franco Angeli Editore, Milano 1977, p. 147.
[4] Ibidem, pp. 108-109.
[5] Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011, p. 27.