
Pensateci un attimo. La forza si era risvegliata appena un anno fa e non c’è neanche stato il tempo di andare a dormire che eccola lì, si sveglia di nuovo.
Stavolta però è un’alba di quelle dolcissimi, non violente né brutali come un allarme che parte alle 5.45. Rogue One è un action fantascientifico inzaccherato nella nostalgia più di una mosca caduta nel miele d’acacia, ma diamine se non è un gran bel film. Quella mosca siamo un po’ tutti noi: finché l’esperienza continua ad essere piacevole, la Disney ha il mio permesso ufficiale per continuare ad intrappolare gli spettatori nel nettare.
Dopo questa ho finito con le metafore, lo giuro. Parliamo del film.
Per quanto mi riguarda, Rogue One partiva con aspettative contrastanti: da una parte una convicentissima campagna promozionale, fatta di trailer e anteprime entusiasmanti che evocavano sensazioni da “film di guerra nello spazio” e anticipavano immagini estremamente suggestive accompagnate da una confezione visiva sontuosa.
Dall’altra parte, la consapevolezza che questo film è il complesso di uno sforzo collettivo – e non della visione di un solo regista: il capitano della nave annunciato, Gareth Edwards, è stato accompagnato da “supervisori” per tutta la durata dei lunghi re-shoot e delle riprese aggiuntive, che hanno trasformato una produzione di otto mesi in un lavoro esteso nel tempo, nel quale lo Studio cinematografico continuava ad aggiungere, eliminare, modificare e ritagliare pezzi in corso d’opera.
In casi come questi, le garanzie di avere di fronte un prodotto completamente solido e coerente non sono mai totali: vedasi il recente Suicide Squad, che è un tale pasticcio di storia e montaggio che somiglia molto poco ad un film e molto di più ad una serie di pubblicità attaccate una sopra l’altra.
Per quanto riguarda Rogue One, invece, il rischio di poca coerenza (soprattutto estetica) e macchinosità è quasi completamente scongiurato: il film scorre in maniera equilibrata e naturale, fatta eccezione per qualche passaggio nel secondo atto (il… “Centro Ricerche Impero”, ovverosia il pianeta su cui vivono Galen Erso e gli scienziati impeiali che progettano la Morte Nera) che è evidentemente il risultato di riprese aggiuntive.
C’è più di un personaggio che soffre di mancanza di approfondimento, situazione che va a ledere un personaggio in particolare: quello interpretato da Mads Mikkelsen (il cotroverso Galen Erso), che funziona più in qualità di “spiegone vivente” che come essere umano che vive, respira e prova sentimenti.
Ma, nel complesso, il timore che le numerose ri-lavorazioni del film avessero inficiato la sua organicità è stato abbastanza superato, ed è merito soprattutto di una trama semplice da seguire e di precise scelte estetiche che trasformano Rogue One in uno dei più interessanti spettacoli visivi del 2016.
Gareth Edwards è sicuramente un autore con una forte sensibilità visiva, e anche dal suo “Godzilla d’autore” si avvertiva l’esigenza di mettere in scena uno spettacolo originale e di impatto, dove le inquadrature sono quasi sempre dei dipinti e la ricerca stilistica è superiore alla media di più o meno tutti i moderni blockbuster hollywoodiani.
Gareth Edwards sceglie sempre molto bene cosa e come inquadrare: Rogue One batte clamorosamente “Episodio VII” nella sua capacità di trasportare lo spettatore all’interno della famosa “Galassia lontana lontana”.
A differenza del capitolo affettat… ehm, affidato a J.J. Abrams, Rogue One è davvero intrinseco alla mitologia di Star Wars: i suoi pianeti, i suoi alieni, le sue astronavi e i suoi sfondi espandono in maniera naturale e organica i film di George Lucas, più e meglio di quanto J.J. sia stato capace di fare nel film del 2015.
Ad esempio, il “pianeta sacro” Jedha, dove sono presenti gli ultimi elementi sopravvissuti del misticismo religioso dei Jedi e della Forza, è una location che appare immediatamente chiara e distinta, tanto che sembra di averla sempre conosciuta. Edwards la presenta quasi come se fosse una città mediorientale tormentata da attacchi terroristici e ritorsioni violente, con una forza di occupazione (l’Impero galattico) e un esercito di guerriglia eterogeneo e nascosto tra una folla di civili. All’interno dell’Alleanza ribelle, ci sono movimenti più o meno estremisti, fazioni che cercano la diplomazia opposte ad altre che somigliano più a partigiani pronti a combattere.
Questo genere di “ricchezza” è espresso perfettamente a livello estetico e si mantiene presente e cristallino lungo tutto il film, infondendo potere e solidità alla mitologia alla base della storia.
A proposito della storia: avete presente i primi minuti del Guerre Stellari originale, quello del 1977? Darth Fener stava inseguendo una nave ribelle che aveva rubato i piani della Morte Nera.
Ecco, Rogue One è la storia di quelli che hanno rubato i piani: il racconto dello sforzo militare e della squadra di persone responsabili dell’impresa.
Tra questi, Jyn Erso (Felicity Jones), figlia dello scienziato che ha creato la Morte Nera, è una protagonista convincente anche se poco approfondita, ed è bello che Guerre Stellari continui lo sforzo di raccontare le sue storie attorno a una figura femminile, quasi a fare ammenda del fatto che nella vecchia trilogia ci fosse di fatto una sola donna in tutta la galassia.
Fin dai primi minuti, è molto chiaro cosa intende essere Rogue One: il racconto di una “rapina” ad opera di un manipolo di anti-eroi, più cupo e maturo di un classico film della saga.
Da una parte, il viaggio del personaggio di Jyn e l’assemblaggio della sua squadra di ribelli è vagamente meccanico e poco approfondito: la “sporca dozzina spaziale” è piena di personaggi interessanti sulla carta, come il pilota imperiale rinnegato o i due ex-monaci custodi del tempio Jedi.
Il film non concede spazio sufficiente ai suoi personaggi per diventare autenticamente tridimensionali e tratteggiati, ma d’altra parte non fa neanche un cattivo lavoro nel caratterizzarli con rapidità ed efficienza.
Fra tutti, ruba la scena il droide imperiale riprogrammato K-2SO, interpretato da un grande caratterista come Alan Tudyk e responsabile dei pochi momenti di leggerezza e umorismo del film. Allo stesso tempo, il personaggio interpretato da Donnie Yen è un’originale riproposizione del classico topos del “monaco guerriero”, e gioca gradevolmente sulla natura spirituale della Forza e sul confine tra Fede e superstizione.
Quello che il film sottrae alla sceneggiatura, restituisce però in spettacolo e potenza visiva. La gestione dell’azione è praticamente perfetta e ogni personaggio principale ha il suo “momento di gloria” in un climax ascendente che culmina in un terzo atto emozionante e ricco di belle idee.
Lo scontro finale è composto da tre battaglie incrociate, che coinvolgono dalle forze di terra alla flotta stellare come nella migliore tradizione starwarsiana, e rappresenta forse il punto più alto che la saga di George Lucas abbia mai offerto nella sua gloriosa storia.
I dieci minuti finali poi sono un autentico regalo ai cultori di Star Wars e trascendono quasi dalla semplice narrazione: per chiunque abbia mai avuto un legame profondo con queste storie, rappresentano un meraviglioso modo per chiudere un cerchio maldestramente “socchiuso” dalla seconda trilogia degli anni 2000. Ogni fan, ogni appassionato di Guerre Stellari non potrà non essere emotivamente catturato dal ponte tra passato e presente che Rogue One è in grado di rappresentare, e non potrà ripensare con nostalgia alle storie con cui è cresciuto.
Rogue One è il primo film di Guerre Stellari a farmi capire come funziona l’Impero come organizzazione: quali sono i suoi vertici, la sua struttura militare e quali trame di potere interno si nascondono dietro i pannelli di controllo degli Star Distroyer.
È anche il primo film a rivelare dettagli e caratteristiche intrinseche dell’Alleanza ribelle: un movimento multietnico e alimentato da più ideologie, diviso tra azioni di guerriglia terroristica e dibattiti parlamentari.
È anche il primo film del ventunesimo secolo a trasportare autenticamente lo spettatore nel mondo introdotto al pubblico tanti anni prima, e nonostante evidenti necessità di “strizzatine d’occhio” ai fan tutto sembra complessivamente organico e spontaneo.
È difficile non liquidare la nostalgia come pietra fondativa dell’intera operazione commerciale di rilancio di Star Wars iniziata dalla Disney, un’operazione che da qui ai prossimi vent’anni ci presenterà probabilmente un Guerre Stellari diverso ogni 12 mesi.
Tuttavia, la nostalgia è un sentimento che ogni Studio cinematografico di oggi tenta disperatamente di evocare; dai supereroi ai remake dei classici degli anni ’80, non c’è proprietà intellettuale che sfugga a tale dinamica.
C’è invece una profonda differenza qualitativa, che risiede nell’abilità di un autore nel “lavorare con la nostalgia”, e non al servizio di quest’ultima. La mia impressione è che Rogue One riesca nell’impresa di riaccendere in noi l’amore per la materia più di quanto sia stato fatto nei tentativi precedenti, e che non si limiti a speculare sul sentimento di affetto che nutriamo nei confronti della Saga con la S maiuscola.
Rogue One racconta una storia semplice bilanciando elementi originali e doverosi tributi al passato, e mette al servizio la tecnologia e la potenza visiva del cinema moderno per riprodurre la stessa magia che animava Guerre Stellari 39 anni fa.
Davide Mela
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