
A tutti piace Montalbano. È simpatico, popolare, arguto, avvincente… come può non piacere? Altra cosa che piace a tutti è Don Matteo. È leggero, spensierato, fiabesco, buonista quanto basta…
Ma, cari programmatori della RAI, se ogni tanto fate pubblicità anche a qualcos’altro non si offende nessuno, eh. Mi riferisco a Romeo e Giulietta – ama e cambia il mondo, la versione italiana del noto (tra gli appassionati) spetacle musical di Gérard Presgurvic, Roméo & Juliette – de la haine à l’amour che è andata in onda ieri sera su RaiDue. Zero pubblicità.
Io stesso (che in teoria dovrei essere molto informato su queste cose, dato che è il mio campo di studio e di lavoro) ho saputo che l’avrebbero trasmesso solo il giorno prima della messa in onda: l’ho visto per voi.
Devo ammettere, comunque, che non mi sono tenuto troppo aggiornato su questo spettacolo. E questo, sostanzialmente per tre motivi.
Il primo motivo è che la storia di Romeo e Giulietta ha definitivamente rotto i… va beh, cercherò di essere meno diretto: Romeo e Giulietta è un testo molto molto molto molto molto molto molto inflazionato.
E credo che il teatro musicale italiano abusi troppo dei testi molto inflazionati. Abbiamo scritto mille spettacoli su San Francesco, Don Bosco, “Promessi Sposi”, fiabe molto note… Vorrei vedere una storia nuova. Magari inedita.
Il secondo motivo è che, sinceramente, sono stanco. Sono stanco di dover sostenere le produzioni italiane di teatro musicale “perché sì“, stanco dei ragazzini canterini che si offendono a morte per una critica e stanco dei produttori che se la legano al dito se esprimi un’opinione; stanco di chi si arruffiana il pubblico dicendo che “allestendo questo spettacolo si è emozionato e divertito“, stanco dei giornalisti che invece di esprimere pareri fanno pubblicità agli spettacoli dei loro amici.
No… non perché sia particolarmente duro e puro… tutt’altro. È che mi sembra che ci si sbrani per delle briciole!
Voglio dire… uno che elimina fisicamente tutti i suoi rivali e lecca tutti i culi che trova per avere lo stipendio di un calciatore posso anche capirlo, ma non riesco a capire come un ingaggio per una produzione teatral-musicale italiana possa fare così gola. Dopo il successone di Notre-Dame de Paris molti (specie giovani) vedono questi spettacoli come delle miniere d’oro e non vedono l’ora di prendersi la loro fetta di torta.
Ma – è proprio il caso di dirlo – la torta è una bugia. I grandi musicisti che ho conosciuto sono persone umilissime che umilmente svolgono una nobile professione.
Il terzo motivo è che onestamente non ho mai capito (parlando del musical originale) cosa ci trovi la gente in questo spettacolo. Non è che non mi piaccia, ma lo trovo facilone, pieno di canzoni di cui non si sente la necessità e decisamente troppo povero dal punto di vista musicale. Ci sono dei brani meravigliosi (come Verone, Le rois du monde, Aimer…), ma per ogni brano meraviglioso ce ne sono almeno cinque noiosi.
Inoltre, nel complesso non lo trovo interessante. Nel senso che mancano momenti di forti emozioni, lirismo, tragicità. Uno spettacolo musicale non è solo musiche orecchiabili, ma anche e soprattutto scene travolgenti. Per fare un paragone, il Giulietta e Romeo di Cocciante e Panella, con tutti i suoi innegabili difetti, ha avuto il merito di essere audace e passionale.
L’unico elemento particolare dello spettacolo di Presgurvic era la ballerina vestita di bianco che scandiva lo scorrere degli eventi, peraltro assente nella versione italiana.
Per tutti e tre questi motivi, quando un anno fa ho saputo che David Zard voleva tradurre questo spettacolo e portarlo in Italia non sono stato troppo entusiasta. A proposito, a differenza di quel che ho sentito dire, produrre una versione italiana di Roméo & Juliette non è affatto “una sfida” o “una follia”, bensì la scelta ponderata di puntare su uno spettacolo che da una decina d’anni raccoglie consensi.
Ma veniamo alla diretta. Come ho detto, la RAI non ha mostrato particolare interesse. E non parlo solo di pubblicità.
Quando vedo uno spettacolo in televisione, voglio che si faccia di tutto per coinvolgermi e restituirmi almeno parte di quella emozione che dà andare a teatro.
Si pensi a tutte quelle manfrine che precedono e seguono le partite di calcio: apparentemente sono inutili, ma in effetti aiutano ad entrare nell’atmosfera.
Prima dello show, invece di parlare dello spettacolo, mamma RAI trasmette una cosa completamente inutile dal titolo Una mamma imperfetta. Una di quelle robe che cercano il comico nella quotidianità col risultato di deprimere lo spettatore fino a fargli rischiare il suicidio.
Poi, per fortuna, viene trasmesso anche un dietro le quinte. È già qualcosa, ma avrei preferito delle interviste, ai cantanti o agli spettatori, o magari due parole per spiegare la storia dell’opera.
La prima cosa che notiamo è che la traduzione di Vincenzo Incenzo funziona. Non regala momenti di grande poesia, ma, del resto, non li regalava nemmeno l’originale francese. Ricordo, infatti, che prima che a lui si era pensato a Pasquale Panella per questa traduzione, scelta molto criticata (anche da me che pure lo apprezzo). In effetti, la penna di Panella è troppo “sanguigna” per un testo del genere, molto più adatto alla scrittura chiara e precisa di Incenzo.
Romeo e Giulietta – ama e cambia il mondo alterna numeri musicali a momenti di prosa, e i secondi servono solo a collegare tra di loro i primi.
Assistendo a questi momenti di prosa, potete capire cosa intendo quando definisco lo spettacolo “facilone”. Essi seguono abbastanza pedissequamente il testo shakespeariano (a volte anche a rischio di sembrare datati), col risultato che spesso si ha l’impressione che l’attore legga, più che recitare.
E disgraziatamente i ragazzi che abbiamo sentito ieri sera su RaiDue non sapevano recitare. I cantanti più anziani sì. A proposito, bravissimi Vittorio Matteucci (padre Capuleti) e Silvia Querci (nutrice), molto brava Barbara Cola (madre Capuleti); non eccelso ma all’altezza della situazione Giò Tortorelli (frate Lorenzo).
Roberta Faccani (madre Montecchi), invece, l’ho trovata irritante.
I giovani, invece, davano davvero l’impressione di non credere a quello che stavano dicendo. Alcuni di loro si sono riscattati nella parte cantata, ad esempio Giulia Luzi (Giulietta), Leonardo Di Minno (principe), Riccardo Maccaferri (Benvolio). Gli altri, rispetto ai corrispettivi francesi, sono flaccidi, mancano di potenza e di espressività.
Non è un disastro, però, perché la partitura di Presgurvic è abbastanza clemente, come detto. Le canzoni sono formate da sì e no tre accordi, e non presentano difficoltà oggettive. Per fare un esempio, la chiusura del primo atto, con la canzone Ama e cambia il mondo, è stata piacevole, poiché i cantanti possono cantarla a voci spiegate senza problemi.
A proposito, mi ero ripromesso di non criticare troppo Davide Merlini (Romeo), perché non volevo fare la figura dello snob che se la prende con la stellina di X-Factor di turno. E, per i primi dieci minuti, ho anche pensato che non ce ne sarebbe stato bisogno… poi, però, mi sono reso conto di una cosa: questo ragazzo non solo ha una vocina troppo all’acqua di rose persino per il ruolo di Romeo, ma… ha una sola espressione! Cioè, per farmi capire…
Davide Merlini nella scena in cui incontra Giulietta.
Davide Merlini scopre che Giulietta è morta.
Qualsiasi scena, anche la più tragica, la affronta col sorriso sulle labbra. Va bene il Romeo ingenuo e poco mascolino, ma qui si scade nel fastidioso! E non sono puntigli da melomani, sono cose che danno fastidio a chiunque.
La scena più bella è stata quella in cui a Giulietta viene imposto di sposare Paride. Prima di tutto perché, al contrario di altre (tipo lo sconclusionato monologo del principe sul potere) ha senso, e poi perché fa interagire tre loro i quattro cantanti migliori dello spettacolo.
A questa scena segue la scena madre di Vittorio Matteucci. So che è un po’ banale elogiare questo personaggio ogni volta che sale sul palco (vale a dire in quasi tutte le produzioni italiane), ma non posso negare che tra la sua recitazione e quella dei ragazzi di cui sopra c’è un abisso.
Rispetto alle performance monocromatiche degli altri, la sua è forse un po’ troppo declamata ma viva, accesa, ricca di sfumature.
Inoltre Giulia Luzi, sua partner di scena in quel particolare momento, è molto convincente quando scoppia in lacrime (anche se ho avuto l’impressione che come attrice sappia fare solo questo).
Ho molto apprezzato anche il corpo di ballo, probabilmente la cosa migliore di tutto lo spettacolo.
Però, conscio che scudisciare è sempre assai facile, a questo punto mi corre l’obbligo di dimostrarvi che non sono il solito teatrante rancoroso che si lamenta di tutto a prescindere. Per questo vi propongo alcuni commenti di un mio amico digiuno di spettacoli musicali moderni.
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- Del primo duetto tra Romeo e Giulietta ha detto: “Questo pezzo sembra preso da L’incantesimo del lago.”
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- Appena è iniziata la festa in Casa Capuleti ha urlato: “Oddio! Un rave!”
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- Durante il duello tra Tebaldo e Mercuzio ha commentato: “Sembrano due gatti che si azzuffano.”
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- Durante il duetto tra il frate e la nutrice si è messo a canticchiare: “Donne, du du du…”
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- A tratti commentava: “Ma ansimano come vacche!”
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- Alla fine ha detto: “Gli acuti sono a dir poco da castrati.”
Da questi commenti si possono dedurre una serie di cose:
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- Le scene che dovrebbero in teoria essere vivaci e particolari non hanno l’impatto che sperano di avere (“due gatti che si azzuffano”).
A questo proposito, devo dire che dal regista Giuliano Peparini mi aspettavo di più. Le scene non erano brutte, ma di lui ho visto cose molto più originali e ricercate. Il fatto è che si tratta pur sempre di uno spettacolo di dodici anni fa, dodici anni in cui lo spetacle musical francese in materia di ricercatezza ha fatto molti passi avanti (si pensi al recente Dracula di Kamel Ouali).
- Le scene che dovrebbero in teoria essere vivaci e particolari non hanno l’impatto che sperano di avere (“due gatti che si azzuffano”).
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- Laddove i cantanti dovrebbero sembrare folli e iperattivi (Mercuzio e Tebaldo), sembrano solo urlanti e inconcludenti. Anche qui il passaggio dalla versione francese a quella italiana non aiuta (si pensi a quei falsetti qui definiti “da castrati” e che oltralpe vengono usati come arricchimento per la partitura).
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- Anche i cantanti più anziani, che ho detto di apprezzare, adottano uno stile da piano bar (“Donne, du du du”) che poco ha a che vedere col lirismo melodrammatico dei cantautori francesi.
Quando si traduce uno spettacolo lo si fa o perché se ne vuole importare il contenuto oppure perché si pensa che le idee che veicola, trapiantate in una patria diversa dalla sua, possano avere successo. Tradurlo solo perché l’originale è piaciuto ha poco senso. Diamo pure per buono e assodato che il sottoscritto sia un teatrante rancoroso e roso dall’invidia; ma tutto questo, tradotto, significa una sola cosa: noia.
Lo spettatore che in genere non guarda questi spettacoli potrà anche aver pensato che lo spettacolo era carino, ma nella sostanza si è annoiato.
Non si appassionerà al genere, né tornerà a vedere lo spettacolo altre dieci volte. E questo è un fatto con cui tutti, organizzatori, produttori, cantanti e appassionati, dovremo fare i conti.
Noi mestieranti possiamo essere convinti quanto vogliamo, ma è un dato di fatto che l’Arena di Verona abbia iniziato a svuotarsi ancora prima dell’ultima canzone.
F.V.