Per motivi che magari approfondirò in seguito con un reportage completo, negli scorsi giorni mi trovavo a Cannes per il festival. Stavo lavorando al Marché du Film, e in cinque giorni non avevo ancora visto un solo film in programma.
Nonostante tutti i miei istinti mi suggerissero di provare a farmi invitare a proiezioni tipo Mad Max: Fury Road, o Sicario di Denis Villeneuve, l’unica possibilità di assistere a un film in concorso durante il festival mi è stata data da un’anteprima delle 8.30 del mattino di “Youth – La Giovinezza” di Paolo Sorrentino.
Il destino, oltre che beffardo, a volte sa essere dannatamente crudele.
Per farvi capire la mia predisposizione naturale verso il cinema di Sorrentino post – La Grande Bellezza, è necessario fare una premessa: ho visto il film mercoledì 20 alle 8.30 del mattino, in una sala piena di cinefili francesi che facevano a gara a chi rideva più forte. Uscito dalla sala, ho girato per il Marché du Film fino alle 18 circa, interrogandomi sul senso della vita. Poi sono salito in macchina e ho cercato di avviarmi verso l’albergo insieme ai miei colleghi. C’era un traffico tremendo, dovuto alla incombente première di “Youth” di fronte a giuria del festival, cast del film, vip di vario genere e vecchietti in frac.
Ecco, tra tutte le persone che avrei potuto incontrare mentre ero fermo nel traffico, mi passano davanti la Santanché e Sallusti.
Capite cosa intendo, quando dico che il destino è crudele? Lo stesso indice di probabilità per il quale avrei potuto incontrare Rachel Weisz, e mi finisce davanti la Santanché. È un po’ come dire che un regista premio Oscar ha a disposizione un cast internazionale e un riflettore puntato sulla sua prossima opera, e decide di abbandonarsi a una stucchevole pigrizia di scrittura e svolgimento. Tanto la gente lo prenderà comunque per genio.
Fin dai tempi di “Le conseguenze dell’amore”, ci sono due anime in Paolo Sorrentino. La prima riguarda un film-maker con un potente gusto per l’immagine, capace insieme al direttore della fotografia Luca Bigazzi di evocare prospettive e simmetrie affascinanti e una indiscutibile ricchezza poetica. C’è la continua ricerca dell’indagine di figure titaniche, necessariamente importanti, illustri o memorabili.
in “Youth” i protagonisti sono un famoso compositore e un famoso regista. Ne “La grande bellezza” il protagonista era un famoso scrittore. “This must be the place” è la storia di una rockstar. “Il Divo” parla di Andreotti. In “Youth” ci sono pure Diego Armando Maradona e Miss Universo. Tutto è gigante, e al cinema di Sorrentino non interessano le persone normali.
Da qualunque prospettiva si guardi la questione, la prima anima di Sorrentino è quindi l’ambizione.
La seconda anima di Sorrentino, invece, è la “caciara”. La svogliatezza, o la sostanziale presa di coscienza che si può anche fare finta di interessarsi a un tema e indagarlo superficialmente, se la percezione collettiva sarà abbastanza lusinghiera da riempire i vuoti.
È impossibile parlare di “Youth” come di un brutto film. Nemmeno “La grande bellezza” era un brutto film, e io ho odiato “La grande bellezza”. Finché hai Bigazzi alla fotografia, sai comporre immagini potenti e hai Michael Caine e Harvey Keitel, il lavoro te lo porti a casa con dignità.
Se però il tuo obiettivo è fare finta di dire qualcosa, e non raccontarmi una storia, non sei un grande artista. Al massimo sei René Ferretti.
L’elemento più interessante di “Youth”, dal mio punto di vista, è che si tratta di una commedia. In questo senso, è un tipo di cinema molto più onesto e meno borioso della Grande Bellezza, dove ogni aforisma di Jep Gambardella avrebbe dovuto farci precipitare in un vortice di esistenzialismo, e ogni silenziosa camminata per Roma di notte doveva avere un significato molto più profondo di quanto la “caciara” in realtà ci illudesse.
Con “Youth” invece siamo dalle parti della sketch-comedy d’autore. Il film è composto da una serie di scenette che non iniziano e non si concludono in maniera particolarmente gratificante, se non con una battuta finale dagli effetti comici altalenanti. Se c’è una scena di “spionaggio” che coinvolge i personaggi di Michael Caine e Harvey Keitel e che funziona su vari livelli, compreso quello dell’elementare intrattenimento e tempo comico, ve ne sono un’infinità di altre che muoiono soffocate dalla drammatica ambizione del voler offrire una lezione di vita illuminante, una perla di saggezza da discount.
L’approdo del film è talmente semplice che suona anche un po’ banale: l’esilio del protagonista termina quando torna, senza un vero motivo scatenante, la “voglia di vivere”. Il protagonista risolve il suo conflitto interiore senza che lo spettatore abbia avuto modo di accedere al suo processo mentale, e affronta in prima persona il dramma da cui stava fuggendo per tanti anni.
Fortunatamente, non ci sono sante o feste nelle ville romane, non c’è l’autocompiacimento sulle maschere tragiche di Toni Servillo. Ma mancano anche le motivazioni, la costruzione dei personaggi e di fatto manca una storia.
L’ambizione è una cosa importante: è la stella cometa che ogni artista o aspirante tale dovrebbe inseguire. Ma l’ambizione non è nulla se non è accompagnata dalla fatica e dall’impegno, e questa è una lezione che si impara intorno ai vent’anni (giovinezza, anyone?). La mia sensazione è che Sorrentino abbia abbandonato l’impegno, nel senso intellettuale e professionale del termine. Abbia dimenticato che la radice di un buon film sono una storia da raccontare e un messaggio da veicolare, e che il vuoto cosmico rimane tale anche quando è formalmente splendido e tecnicamente impeccabile.
Se invece ci si crogiola nell’illusione che le tue immagini possano parlare da sole, che la tua poesia si possa comporre con un puzzle di parole a caso, si ottiene un mosaico fatto di pezzi di scarabeo: una “poetica d’autore” che al momento è a fortissimo rischio di ridicolo involontario.
Davide Mela
@twitTagli