Il nuovo Re Leone live-action è una condanna per il genere umano

Allora, cominciamo con una doverosa premessa: io odio Il Re Leone, da sempre.

Perché? Ve lo spiego dopo, per ora mi limito a riportare una notizia: la Disney ha annunciato che produrrà il film live-action de Il Re Leone, con Jon Favreau (già regista de Il Libro della Giungla, uscito questa primavera) alla regia e un mucchio di soldi spesi in GCI e motion capture per riprodurre le movenze di animali in computer grafica, virtualmente fotorealistici ma in grado di parlare, recitare e occasionalmente cantare i tormentoni disneyani della nostra infanzia.

C’è poco da commentare sull’ultima vittima di questo drammatico trend targato Disney: i remake dei cartoni animati classici fanno un mucchio di soldi, e basta osservare lo spaventoso successo di cose come Alice in Wonderland di Tim Burton, Maleficent, Cenerentola e Libro della Giungla per accorgersi che, dal punto di vista commerciale, si tratta di una mossa sicura e sensata.
Si tratta però anche di una delle cose peggiori che siano mai potute capitare al genere umano: l’idea di capitalizzare sopra un logo, un brand, un “titolo” già consolidato e digerito dal pubblico e dalle famiglie in particolare, che permette allo Studio di essere ragionevolmente sicuro di fare soldi con 2 o 3 film di questo genere fatti uscire ogni anno.

Poi hai poco da dire sull’ennesimo reboot o remake di un film o di un franchise: lo scenario verso il quale ci stiamo dirigendo è quello di un eterno ritorno dell’uguale in cui ogni 10-15 anni esce un nuovo film di Batman, un nuovo film di Spider-Man, un nuovo Star Wars e un nuovo classico Disney tecnologicamente aggiornato.

“Sei solo un rompiballe, io non vedo l’ora di vedere Frozen – il film”,

dirà anche qualcuno.
Ed è una posizione legittima; per chiarire la mia, voglio precisare di avere avuto un grosso, serio problema con il recente Jungle Book di Jon Favreau, che pure è un film dignitoso e ben fatto; la precisione e accuratezza della computer grafica è pazzesca, tanto che gli animali appaiono perfettamente integrati rispetto ai set e alle interazioni con l’unico attore in carne ed ossa del film, quello che interpreta Mowgli.

Il mio problema principale con Il Libro della Giungla del 2016 è che si tratta di un film in live-action nel quale un buon 80-90% degli elementi presenti sullo schermo è digitale, e guardare una finta pantera in CGI praticamente fotorealistica muovere la bocca per parlare con la voce di Ben Kingsley (o di Toni Servillo, nel doppiaggio italiano) è tanto strano quanto profondamente “anti-cinematografico”.
Perché investire milioni in una tecnologia capace di riprodurre virtualmente la realtà in modo quasi perfetto, per poi ricomporre un mondo digitale che non aggiunge un grammo di realismo in più di quanto ne avesse fatto 50 anni prima un cartone animato in 2D?

La verità dei remake è molto semplice ed è una sola: ne vale la pena se il film che uscirà fuori è bello. E in definitiva, il nuovo Libro della Giungla è quasi un bel film, quindi perché no?
Forse perché poi il successo di una simile operazione convince un colosso di Hollywood a produrre il live-action di La Bella e La Bestia, con tanto di tazzine, zuccheriere e candelabri viventi in CGI. Non so pensare a qualcosa di più stupido, inquietante e inutile che guardare un candelabro fotorealistico che balla e canta per due ore con la voce di Ewan McGregor, e ahimè il nuovo corso dei classici Disney sembra andare esattamente in quella direzione.
E Il Re Leone rappresenta forse l’apice di questa assurda, cinica e calcolatoria operazione di “remixaggio tecnologico” dei tormentoni della nostra infanzia.

Okay, penso sia venuto il momento: vi spiego brevemente perché odio Il Re Leone.

Non mi piace il messaggio, non mi piace quello ha da dire al suo pubblico di riferimento (i bambini) ed è un perfetto esempio di cosa c’è che non va nel mondo di oggi.
Partiamo dalla storia.
Il Re Leone parla di Simba e di un intrigo di palazzo orchestrato da suo zio, che vuole usurpare il trono del fratello. E fin qui tutto bene: tra una ballata di Elton John e l’altra, il film assume le sembianze di un innocuo adattamento disneyano dell’Amleto di Shakespeare.
Il problema è che il cuore della storia de Il Re Leone non sta nell’archetipo dello “zio usurpatore”. Piuttosto, il vero arco narrativo parte dalla vicenda di un giovane (Simba) che decide di fuggire dalle sue responsabilità e dal ruolo che la società ha pensato per lui.

Simba scappa di casa.
Si perde, vagabonda per la savana finché non incontra due prototipi dell’hippie moderno in versione Disney: Timon e Pumba.
Il facocero e la mangusta invitano Simba a vivere con loro, creando sostanzialmente uno dei primi modelli di Stepchild Adoption ante litteram. Insieme, la nuova “famiglia disfunzionale” mangia junk food tutte le sere, consuma stupefacenti, non ha un lavoro fisso… in poche parole, Hakuna Matata.
E poi, un giorno, appare la Donna.

Useremo la D maiuscola perché la leonessa de Il Re Leone è la personificazione della Donna Disneyana, un veicolo della trama più che un personaggio.
Appare la Donna, che scuote un po’ la coda fino a confondere le idee a Simba, quindi esordisce per ciò che è davvero la sua missione: riportare il nostro protagonista, che è felice con il suo stile di vita, alle responsabilità che la Società ha prescritto per lui.
Senza Simba al suo posto, a fare ciò che era previsto che facesse, il mondo è andato a puttane: si è insidiato un regime proto-fascista governato da Scar, una specie di Turchia di Erdoğan dove le iene indossano stivali tattici militari e i disertori vengono messi in galera.

Il Re Leone se la cava con un innocente “Can you feel the love tonight”, ma la verità a questo punto della storia è che Simba è stato traviato e ipnotizzato dal richiamo della Donna.
Deve perciò abbandonare il suo stile di vita e la sua nuova casa, e fare ritorno fra le braccia della Società.
Chiaramente, a questo punto, la sua vita non era abbastanza: essere felici non è il traguardo, se la felicità individuale viene perseguita al di fuori di ciò che il film ama chiamare “Il Cerchio della Vita”.
Non solo Simba deve ritornare dentro la Società, ma porta con sé Timon e Pumba e assegna loro un lavoro; combatte Erdo-Scar e tutto finisce in trionfo mentre la colonna sonora ci accompagna lungo le note de “Il Cerchio della Vita”.

Bambini, ecco cos’è il Cerchio della Vita

Sul gradino più alto della catena alimentare siede un branco di felini pasciuti e benestanti, che governa e amministra le risorse per tutti gli altri animali.
I leoni poi muoiono e diventano concime per l’erba, che voi mangerete.
Voi brucherete l’erba e vivrete nutrendovi della materia di scarto, degli avanzi in decomposizione dei leoni… perché questo è il posto che vi è stato assegnato nel Cerchio della Vita.
Loro, i leoni, ogni tanto verranno ad uccidervi e mangiarvi: quello è il loro posto.

Va benissimo se si desidera guardare al ciclo della vita nel senso biologico del termine, ma non è ciò di cui parla Il Re Leone; nel film, il Cerchio della Vita rappresenta la posizione che la Società ha pensato per ognuno di noi, e insegna ai bambini a non azzardarsi ad uscire dal proprio posto.
Devi fare il tuo lavoro, restare nei ranghi, non tentare di perseguire la tua idea di felicità o gratificazione individuale. Altrimenti, le conseguenze saranno drammatiche: si imporranno regimi totalitari e le risorse saranno redistribuite a tuo svantaggio.

L’unica soluzione è convogliare in un unico aggregatore collettivo di individualità che è il Cerchio della Vita: una specie di multinazionale globale eretta e sostenuta per preservare la libertà e lo status quo.

In poche parole, l’America targata Walt Disney.

Non è previsto che tu esca dalla savana per addentrarti nella giungla, in cerca di uno stile di vita diverso da quello tradizionale; il tuo compito è alzarti tutte le mattine, fare il tuo lavoro, tornare a casa, guardare 6 ore di tv, andare a dormire, svegliarti e ricominciare da capo. Ora esci pure dal cinema bambino, e non dimenticarti di comprare i giocattoli del Re Leone insieme al tuo Happy Meal.

Fate quindi voi un rapido calcolo, e decidete voi se dare credito a questa improvvisata invettiva ai danni di Topolino e di tutti i mostri figli suoi. Prendete un classico di animazione degli anni ’90 come Il Re Leone e annegatelo in un brodo di innovazione tecnologica da cinema di inizio XXI secolo; poi verificate se la mia avversione per i suoi contenuti può avere qualche attinenza con la strategia che sta mettendo in atto Disney nei confronti dei suoi “patrimoni di animazione del secolo scorso”.

Dal mio punto di vista è una battaglia persa, tanto per quanto riguarda i classici Disney quanto per altre proprietà intellettuali a me care (leggasi “supereroi”, per fare un esempio).
Si tratta solo di rassegnarsi, sedersi sulla poltrona e aspettare la decina d’anni che ci separano all’uscita di Il Re Leone in realtà virtuale: presto sui nostri cellulari.

Davide Mela

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