
L’altra sera mi annoiavo: non c’erano partite dei mondiali in tv, avevo finito le puntate di Game of Thrones e leggere un libro senza le figure mi pareva una prospettiva troppo ambiziosa. Certo, avrei potuto lavorare. Ma chi ha mai scritto un articolo a proposito di “quella sera in cui si è messo a lavorare”?

Nella parte del cattivo c’era Tilda Swinton, che per l’occasione aveva probabilmente rubato costumista e truccatore di Nicolas Cage.
Ma non è abbastanza: alcuni elementi sembrano presi di peso da un film di Terry Gilliam, al punto che il personaggio di John Hurt… si chiama “Gilliam”.

Al suo ingresso in scena, la tensione crescente e il senso di urgenza che il montaggio serrato standard di un film d’azione occidentale sono abituati a farci provare… scompaiono, in favore di una lunghissima sospensione dell’azione che fornisce al personaggio di Kang-ho Song tutto il tempo di cui ha bisogno per diventare una leggenda totale senza dire una parola.
Le scene seguenti di Snowpiercer annunciano l’avvicinarsi di un maledettissimo C.
Capitan America fa cose bruttissime, l’action tradizionale degenera in un immaginario psichedelico di maestre d’asilo con il mitragliatore in mano, l’attore coreano si siede sornione e ammicca.
C’è la stessa poetica anarchica e satirica, lo stesso desiderio di fuggire da quello che il pubblico si aspetta che accada, lo stesso anti-eroe cinico e disinteressato al destino del mondo.
Non è un kolossal dai maestosi effetti visivi, con un’azione travolgente, divertimento, gesta eroiche ed esplosioni.
Fa cinema di genere, anzi di più generi, messo al servizio di una storia da raccontare e di uno sconfinato talento visivo. Snowpiercer non è un C. di niente. Ed è imperdibile per questo motivo.