La post-verità e la verità di un post: il bispensiero di George Orwell nel 2016

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Prima di tutto, desidero scusarmi per avere tirato fuori il titolo più presuntuoso che sia mai stato associato all’articolo di una testata online. Fa giusto il paio con certi titoli di tesi di laurea in filosofia che mi è capitato di leggere: roba come “Il “museo postmoderno come applicazione di istanze teoriche a una realtà multiforme”, oppure “L’emozione come criterio valutativo e cognitivo in Martha Nussbaum”.
In realtà, ambizione eccessiva a parte, ciò che mi preme è tentare di riflettere in maniera personale sul termine “post-verità” e sulla decisione dell’Oxford English Dictionary di eleggerlo come parola dell’anno per il 2016.
Mi sembra che, anche alla luce di recenti eventi e svolte politiche, dalla Brexit a Donald Trump fino alla vittoria del No al Referendum, ci sia abbondante spazio per affrontare la questione in riferimento all’attualità e al mondo, fisico ma soprattutto virtuale, che abitiamo. 

Con “post-verità” si intende una notizia completamente falsa ma spacciata per autentica da uno o più mezzi di comunicazione, e in grado pertanto di influenzare l’opinione pubblica.
Non è lontana da termini come “leggenda metropolitana” o “bufala”, ma rispetto a questi ultimi, la “post-verità” prevede un grado più alto di attendibilità e capacità di essere immediatamente recepita da un’ampia porzione della popolazione. 

Il potere della bufala negli ultimi anni è in aumento esponenziale, e questo è evidente a tutti: la ragione principale deriva forse dalla nostra scelta di informarci tramite i social network, e recentemente molte voci hanno ipotizzato che la vittoria di Trump alle elezioni sia in parte dovuta alla circolazione di false informazioni che sono passate come vere: dalla presunta notizia che il Papa avesse ufficialmente dato il suo endorsement a Trump fino allo scoop che Hilary Clinton avesse venduto armi all’Isis, simili “post-verità” sono state per settimane tra le notizie più apparse e più lette su Facebook e Twitter, ed è perciò impossibile non associarvi un ruolo attivo nel risultato elettorale americano.
Questo è, molto genericamente, il ritratto attuale di un fenomeno in espansione nella società contemporanea che l’Oxford English Dictionary ha sintetizzato bene in “post-verità”. Se ne potrebbe discutere ad oltranza, e sarà materia di studio fondamentale per anni a venire; da parte mia, provo ad associare questa idea ad una serie di osservazioni e riflessioni personali che mi sembrano attinenti. 

Una fra tutte, drammaticamente attuale: come e perché ha vinto il No al Referendum? Non voglio dare giudizi sull’esito o dire come la penso, solo farmi una domanda su come si sia arrivati a questo risultato: c’entra davvero la coscienza civile, la volontà di documentarsi e informarsi in materia e la pertinenza degli argomenti su cui si è stati chiamati a votare, o hanno forse pesato in misura maggiore la disinformazione e la mistificazione della realtà?
Dal mio punto di vista, per comprendere fino in fondo l’idea della post-verità, è utile fare un passo indietro e avvicinarsi ad un autore che, moltissimi anni prima, l’aveva praticamente prevista. In 1984, George Orwell parla di “bispensiero” come di una delle fondamenta del regime totalitario immaginario che governa il continente del suo 1984 alternativo. 

Per Orwell, il bispensiero è il fondamento filosofico della nuova comunicazione imposta dal regime (la “neo-lingua”): indica un meccanismo mentale secondo il quale tutto è traducibile nel suo contrario e ogni concetto può istantaneamente essere confermato e smentito allo stesso tempo. 

Il bispensiero è uno strumento del regime che costringe la popolazione a dimenticarsi automaticamente del passato, dei precedenti, di dichiarazioni solenni che vengono smentite a distanza di brevissimo tempo. “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato” è uno degli slogan del Partito. Per citare lo stesso Orwell: 

“Dimenticare tutto quello che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi dimenticarlo da capo: e soprattutto applicare lo stesso processo al processo stesso.
Questa era l’ultima raffinatezza: assumere coscientemente l’incoscienza, e quindi da capo, divenire inconscio dell’azione ipnotica or ora compiuta.
Anche per capire il significato della parola “bispensiero” bisognava mettere, appunto, in opera il medesimo.”

Lo stesso protagonista di 1984, Winston Smith, è impiegato in un ufficio la cui principale mansione consiste nel “rettificare il passato” a seconda delle esigenze, in una versione esasperata e violenta delle classiche “smentite di convenienza”, secondo le quali questa o quella dichiarazione non sarebbe davvero mai stata fatta, quel precedente non sarebbe mai davvero esistito.
Donald Trump ha passato buona parte della sua campagna elettorale a ripetere che lui “non aveva mai detto o fatto certe cose”, nonostante fossero alla luce del sole. L’importante era che i suoi elettori assumessero quella precisa verità, filtrata dagli strumenti di comunicazione che sceglievano di impiegare. 

Senza continuare a tornare sul buon vecchio Donald, e senza ambire a trasformare il 2016 di oggi in un alienante futuro distopico, qualunque cittadino italiano ha sotto gli occhi dinamiche e meccanismi non dissimili.
Internet espande verso orizzonti illimitati il potenziale di comunicazione e informazione di cui dispone l’essere umano, eppure ci troviamo a disquisire di post-verità e bispensiero, di informazioni filtrate e selezionate secondo le nostre personali visioni del mondo. La nostra capacità di informarci, compiere scelte politiche, mettere in discussione le nostre convinzioni sembra ridotta anziché aumentata, un po’ come se ci fosse un motore di ricerca che elimina le voci non in armonia con il coro di cui facciamo parte. 
Da parte mia, non riesco a non associare questa “epoca della post-verità” (per dirla come Renzi) alle riflessioni che Orwell e la sua neo-lingua hanno sempre suscitato in me. Non riesco a pensare alla metamorfosi della parola “ignoranza” nella lingua italiana e non concludere che in un certo senso stiamo tutti ragionando con il bispensiero. 

George Orwell scriveva che “l’ignoranza è forza”, mentre nel 2016 “ignoranza” significa qualcosa di preciso nei social network, e più che un vizio sembra una dote. Caratterizza un tratto di genuinità, sincerità, autostima e schiettezza, qualcosa da esaltare seguendo le orme di personaggi come Vittorio Sgarbi, Putin, Cruciani, Bobo Vieri e persino Berlusconi.
È emblematica, in questo senso, la “rivalutazione ironica” che ultimamente sta prendendo piede nei confronti del vecchio Silvio, che più di tantissimi altri incarna quello spirito “ignorante”. O, se preferite un’altra espressione emblematica, Berlusconi è un bomber. 

 

Immaginate un mondo in cui l’elettorato del partito più votato del Paese si informa, si documenta, ragiona esclusivamente all’interno di una bolla protettiva. Immaginate una routine composta dalla lettura di post su un blog devastato da bufale clamorose, che progressivamente si mescolano a mezze notizie e finte informazioni dirompenti.
Immaginate che una vasta percentuale di questo elettorato senta la necessità di condividere le informazioni che apprende, e che ne faccia le basi di ogni sua decisione politica; che questo comportamento sia il cuore della sua identità di cittadino responsabile. 

Ecco. Ora immaginate che questo partito si chiami Movimento 5 Stelle, e che al suo interno non esista alcun modo di regolare, filtrare o moderare le “post-verità”. Al contrario, immaginate che la loro diffusione sia incoraggiata. 
In questo mondo, Donald Trump diventa un eroe anti-establishment. Putin diventa un paladino a difesa dei valori dell’Occidente. Berlusconi diventa un modello di superiorità maschile, e il Referendum costituzionale diventa un attentato alla democrazia. 
In questo mondo, la verità è tanto importante quanto la sua contro-narrazione, che ognuno di noi ha il potere di gestire attraverso il flusso dei nuovi media. E una voce moderata non sarà mai retwittata quanto una sparata estremista. 

È estremamente facile rifugiarsi in conclusioni “luddiste” o tecno-fobiche, secondo cui i social network ci hanno distrutto l’informazione e relativizzato le notizie, non preoccupandosi di distinguere il vero dal falso.
Ma è banale e superficiale fermarsi a questa conclusione, perché comunque la si decida di pensare sul ruolo di Facebook, Twitter e YouTube nella vita moderna, la verità è che non si tratta di altro che di uno strumento.
Come per ogni matita, per ogni macchina da scrivere, per ogni megafono più o meno potente, esiste un modo giusto e un modo sbagliato di usare gli strumenti a propria disposizione; il compito di ognuno di noi è vivere nel dubbio, cercare la verità come orizzonte a cui tendere e mai come dato di fatto.
Se i social network si sono evoluti dall’essere una piattaforma di condivisione del proprio privato a dominare l’informazione, allora è preciso compito di ogni “privato” trattare la Verità come il proprio datore di lavoro. E per tutti noi, vivere nell’era della post-verità significa essere costretti a tornare al lavoro. 

Davide Mela

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