Cesare Romiti è stato un grande protagonista del suo tempo, grazie ad una brillante carriera che lo ha portato ai vertici della più grande azienda privata italiana, la Fiat. A 89 anni Romiti ha deciso di raccontarsi e di raccontare cinquant’anni di economia, finanza e politica italiana visti attraverso i suoi occhi, in un libro-intervista con Paolo Madron, direttore del quotidiano online Lettera 43. Quello che emerge da “Storia segreta del capitalismo italiano” è un affresco vivido dei vizi e delle virtù del capitalismo in salsa nostrana.
Il capitalismo italiano, dal Dopoguerra ad oggi, è stato interpretato da una ristretta cerchia di volti, cronicamente afflitto dalla mancanza di grandi capitali. Un capitalismo familiare e dinastico nel quale il controllo delle aziende passava di padre in figlio. Peculiarità che hanno favorito l’ascesa e il consolidarsi del capitalismo di relazione. Celebre la frase coniata dal dominus di Mediobanca Enrico Cuccia, “Le azioni si pesano, non si contano”. Un modo per dire che nel Belpaese il nome che si cela dietro la proprietà conta più della consistenza dei pacchetti azionari.
Proprio Enrico Cuccia occupa uno spazio di primissimo piano nelle pagine del libro. Romiti ne esalta le qualità di banchiere d’altri tempi. Oltre che come prezioso mentore, Cuccia emerge come alfiere di un capitalismo che non esiste più, dove al banchiere interessava soprattutto la ricostruzione o creazione del tessuto industriale italiano – praticamente inesistente in quello che fino al Dopoguerra era considerato un paese agricolo – e non il mero tornaconto personale.
Più sintetico ma non meno celebrativo lo spazio dedicato ad un altro Enrico, quel Mattei che, nominato dall’Iri liquidatore dell’Agip, seppe rilanciare un’azienda affossata dai debiti, creò l’Eni e portò l’Italia a dire la sua sulla scena dell’industria energetica mondiale, dominata in quegli anni dalle famigerate Sette Sorelle.
Ampie parti – e non poteva essere altrimenti – sono dedicate a Gianni Agnelli, personaggio con il quale Romiti ha lavorato a stretto contatto nei 25 anni di Fiat. Romiti ne evidenzia soprattutto le capacità di stratega, ma ne sottolinea l’idiosincrasia per l’aspetto gestionale e manageriale dell’azienda, verso il quale l’Avvocato mostrava noia e spesso anche fastidio. L’ex amministratore delegato del Lingotto ripercorre anche il delicato rapporto di Agnelli con la famiglia e in particolare con il figlio Edoardo, morto suicida.
Particolarmente interessante è il raffronto tra i manager di ieri e quelli di oggi – i primi impegnati esclusivamente per il bene dell’azienda tanto da far coincidere la propria vita con essa, i secondi molto più interessati a far fruttare il proprio investimento. In questo senso Romiti non è un sostenitore delle stock option. Introdotte come incentivo ad operare al meglio, sono finite per diventare quasi una fonte di ansia da prestazione per il manager che giocoforza finisce per concentrarsi spesso sul suo investimento e non sul profitto aziendale. Il riferimento a Marchionne non è diretto ma può comunque leggersi tra le righe.
Incalzato dalle domande di Madron, l’ex amministratore delegato di Mirafiori risponde anche sulle figure di De Benedetti e Berlusconi, oggi accesissimi rivali. Il primo, con cui non sempre è corso buon sangue, viene dipinto come uno scaltro “raider”, uno scalatore. Entrato in Fiat con l’intento di “rivoltarla come un calzino”, se ne andò in capo a tre mesi dopo aver capito che non glielo avrebbero permesso.
Dell’ex premier Romiti sottolinea il grande fiuto da imprenditore, ma si sbilancia meno sul Berlusconi politico, colpevolmente sottovalutato – e Romiti lo ammette – all’epoca della prima discesa in campo.
Non mancano riferimenti ad una stagione che vide Romiti protagonista, anche come “persona informata sui fatti”: quella di Tangentopoli. Romiti muove una critica alla gestione di quello scandalo, capace di fare qualcosa in tema di corruzione ma molto poco in tema di concussione, una piaga che ancora oggi affligge il nostro Paese.
Il libro si chiude con una raccomandazione ai giovani (ventenni, trentenni e quarantenni): quella di unirsi in una sorta di Internazionale (europea) di giovani per cambiare le sorti dell’Europa stessa e per realizzare finalmente un’unione politica, magari mandando in pensione gli “ottuagenari come me”. Un invito alla rottamazione che una volta tanto non viene da un ragazzino.
Alessandro Porro
@alexxporro