“È colpa della crisi”: questo è il mantra di buona parte della classe politica italiana. La crisi giustifica qualsiasi cosa, anche scelte che poco hanno a che fare con questa: dalla spending review del governo, al mal funzionamento di un ufficio burocratico, alla tenuta sciatta di un parco pubblico.
È indubbio che l’entità della recessione abbia costretto lo Stato a ridimensionare profondamente se stesso e i servizi che offre al cittadino; è indubbio che ognuno di noi debba affrontare sacrifici più o meno gravosi; ma non si può sacrificare qualsiasi cosa in nome della crisi. Non si può perché da giustificazione, questa parola rischia di diventare strumento al servizio della politica. Parlo di quella politica che infonde nel cittadino un senso d’angoscia, di rassegnazione, di ineluttabilità, tale da mutare sensibilmente la forma mentis nel cittadino stesso, spingendolo all’accettazione passiva di qualsiasi decisione calata dai piani alti.
Non dimentichiamo poi che la crescita di un estremo porta con sé anche la crescita dell’estremo opposto: di qui le sempre più frequenti manifestazioni di “ribellione” con esiti, spesso, drammatici.
Ricordo che alla “Leopolda” del novembre scorso Renzi ha fatto spesso riferimento a sentimenti quali “speranza” e “entusiasmo”; lì per lì mi hanno lasciato un po’ freddo: preferisco una proposta concreta piuttosto che cento astrazioni immaginifiche.
Assistendo alla campagna elettorale, però, ho capito cosa intendeva Renzi con “speranza”. Non intendeva certo promettere l’impossibile rimborso dell’IMU, né intendeva lo spirito fiacco e già destinato al fallimento del Pd di Bersani, né la freddezza e il distacco emotivo del Tecnico, né le formule (purtroppo solo) stilisticamente perfette di Vendola. Nè la rabbia verso l’altro, perché l’entusiasmo di un Vaffa day non è legato a un progetto, ma dura solo finché c’è qualcuno “altro” da insultare.
Intendeva quella speranza che non esclude la concretezza della proposta, ma la giustifica e ne diventa il fine. Quella che permette di aprirsi con un sorriso, non con il timore, al futuro e alle generazioni future. Quella che permette al “nonno di Cagliari” e alla “casalinga di Chieti” di vivere meglio il proprio sacrificio; sacrificio da affrontare non perché imposto da paura o mancanza di alternativa, ma come investimento per il futuro.
Francesco Cottafavi