Il PD, la Nuova DC e quella sinistra che vince controvoglia

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Mario Adinolfi (…) va sentenziando la definitiva mutazione del Partito Democratico in qualcosa di molto simile alla Democrazia Cristiana (una cosa che praticamente tutti i nati dopo il 1982 a momenti non sanno manco cos’è, perché semplicemente – e gravissimamente – non si studia a scuola).
Già per il fatto che lo sostiene Adinolfi, ce ne sarebbe abbastanza per pensarla in modo diametralmente opposto (cliccare per credere): ho un amico che fa così con suo cugino per le bollette della SNAI, è formidabile. “Claudio, quanto finisce il derby?“. “Partita da 0-0 facile“. “Perfetto, over 2,5 e 1 fisso“. Con questo sistema mantiene moglie e figli.
Ma visto che le argomentazioni ad hominem non convincono sempre tutti, proviamo a capire realmente cosa è diventato il PD sotto le grinfie del Gianburrasca toscano e se (e come) potrà sopravvivere al suo stesso successo.

Passata (ma nemmeno poi da tanto) l’euforia dei risultati notturni, un grandissimo numero di classici sinistroidi si dichiarava “amareggiato dal fatto che il super risultato del PD sia il super risultato di Renzi“, fino al sublime “Avrei preferito che vincessimo con uno scarto minore, ma che non fosse dovuto a Matteo” (dialoghi veri, NdR).
Questo atteggiamento, che io chiamo “duroepurismo”, è il primo grande ostacolo non solo alla creazione di una Neo-DC, ma alla configurazione stessa di un partito maggioritario di sinistra. È, in fondo, lo stesso motivo per cui la sinistra alle Europee si è divisa in vari tronconi (Tsipras, PSE, Verdi, altri movimenti nazionali) tutti – chi più chi meno – con un seguito consistente.

Il militante di sinistra è soggetto a un complesso di superiorità: vuole dimostrare a se stesso e agli altri che è qualcosa di meglio del resto del mondo. Da qui l’oltranzismo, che si rafforza hegelianamente ogni volta che le sue tesi incontrano le altrui antitesi.
Nel momento in cui si è vinto, ci si interroga come la propria visione del mondo possa prevalere su quella dei “compagni che sbagliano” (ops).
Per forza: quando si costruisce un proprio pensiero politico oggettivamente granitico, non solo diventa difficile mediare con le costruzioni diverse, per quanto affini; ma è altresì difficile stabilire l’ordine delle priorità.

È questa sempiterna riproposizione del contrasto riformisti-massimalisti (cui si aggiunge la sinistra che io chiamo “radicale”, che loro definiscono “progressista”: insomma, Vendoliani ieri, Tsipristi oggi, intransigenti sempre) che rappresenta la difficoltà principale di qualunque segretario di centro-sinistra desideroso di uscire dal ghetto del 30% e spiccioli.
L’exploit si può avere, ma il problema è farlo durare.
Il nostro Domenico Cerabona ama ripetere che la DC era quasi una “federazione di partiti”, in cui le varie correnti in un modo o nell’altro trovavano equilibrio nella spartizione del potere per poi presentarsi compatti agli appuntamenti elettorali.

Non che l’area left italiana non sia capace di spartirsi il potere (suvvia); il punto è che non ha ancora dimostrato di essere pronta ad accettare i simili: nella sua visione del mondo, ci sono gli uguali e i diversi. Con gli uguali ci si rapporta, coi diversi si combatte con ogni mezzo. (esempio 1, esempio 2)
Imparare a convivere (e prima: accettare) i simili è la prima sfida per consolidare il 40.8% raccolto.
La seconda carta sarà convincere l’elettorato a tirare una riga dopo l’elenco “cose del passato che non ci sono andate giù” e ricominciare: piantarla di rinfacciarsi gli insulti, i fallimenti, le bicamerali, le manovrine… per ripartire da quel dato.
Purtroppo, moltissimi elettori di tale area digeriscono a fatica il proverbio “Il meglio è nemico del bene“, e dunque per puntare a traguardi grandissimi son disposti a rinunciare alla politica dei piccoli passi. Sono scelte.

Su una cosa, per tornare all’incipit, Adinolfi può aver ragione: se tutti i nodi appena elencati verranno al pettine, potremmo assistere a una notevole ripolarizzazione dello scenario politico, con un fronte (di nuovo, dopo tanti anni) di grande consenso ma spostato a sinistra. Ma la DC era una cosa diversa, aveva al suo interno più leader, più orizzonti di riferimento, ed una concezione quasi materiale della realpolitik.
L’ideale per il futuro italiano di quest’area sarebbe arrivare ad avere un grande contenitore di anime e di sensibilità regolato dall’alternanza interna da una parte (il PD), ed un partito massimalista dall’altra (talvolta al suo fianco, talvolta contro di esso: mica è così impossibile).

A quel punto, per un sistema politico equilibrato, mancherebbe “solo” un avversario decoroso, sotto forma di destra europea (il massimo sarebbe liberale, ma andrebbe anche bene un conservatorismo serio). Ma qui la strada, se possibile, è ancora più lunga.

Umberto Mangiardi
@twitTagli 

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