Una delle caratteristiche più emblematiche del conflitto siriano è sempre stata quella di essere fondamentalmente dominato da due forme di caos: una prima dispiegata sul terreno, dove gruppi armati eterogenei – sostenuti dalla potenza X o dalla potenza Y – si son fatti e continuano a farsi la guerra a colpi di mortaio e bombardamenti, impedendo a chi non sia sul terreno di capire quali siano veramente gli schieramenti in ballo e per cosa si combatta.
Una seconda forma di caos è quella invece visibile nella copertura mediatica data al conflitto, anch’essa confusa e contraddittoria, spesso rea di lasciare i lettori, gli studenti e gli osservatori del conflitto con qualche punto interrogativo irrisolto nella testa.
Dev’essere quindi anche questo il destino di Aleppo, seconda città siriana per importanza e numero di abitanti, epicentro di un conflitto e di un assedio in vigore dal 2012 e parzialmente concluso in questi giorni, che ha causato morti, indignazione internazionale e la disintegrazione di un intero tessuto urbanistico.
Nonostante i media e la classe politica commentino i fatti di questi giorni sforzandosi in tutti i modi di cercare e condannare un colpevole, a volte sarebbe meglio incanalare le proprie energie in un’attività altrettanto faticosa: la neutralità.
Quando si parla del conflitto in Siria e si cerca di spiegarlo attraverso una visione manichea, e quindi binaria di “buoni vs. cattivi”, si rischia di commettere un errore di valutazione, ma anche un torto nei confronti della sua popolazione martoriata, l’unica vera e innocua vittima di questo disastro.
Ieri, di fronte alla confusione data da giornali che demonizzano Assad e altri che demonizzano l’opposizione, una domanda ricorrente rimbalzava da un commento all’altro: “Si, ma chi sono i buoni?”. La risposta richiede un po’ di coraggio, un po’ di realismo e forse anche un po’ di cinismo: tra i combattenti che si fanno la guerra dal 2012, i buoni non esistono più.
E può sembrare un’affermazione banale, ma prenderne atto ed evitare ogni schieramento che santifichi X e demonizzi Y rappresenta un punto cruciale per capire il caos siriano e la questione di Aleppo.
Esiste una corrente mediatica soprattutto occidentale (ma anche araba e qatariota, legata ad Al Jazeera e ad altri ‘grossi’ canali d’informazione) che dipinge l’opposizione siriana come dei “ribelli moderati”, anche se persino le pietre lo sanno, che di “moderato” tra le file eterogenee dell’opposizione ad Assad ormai c’è ben poco. Il termine “ribelle” è pertanto anacronistico: vittima più o meno consapevole di infiltrazioni saudite, qatarite, islamiste e terroristiche, il famigerato Esercito Siriano Libero che combatte Assad dal 2011 è infatti diventato un impasto eterogeneo di combattenti dalle ideologie confuse, e spesso settarie, che non ha esitato a combattere a fianco di organizzazioni terroristiche quali Al Nusra o Al Sham.
La seconda corrente mediatica filo governativa e filo russa ha invece il difetto di chiudere gli occhi sulle atrocità del regime (che s’intende venivano già perpetuate ben prima delle rivolte del 2011), di santificarlo in chiave anti-terrorista e di archiviare tutto il movimento di opposizione siriana nato nel 2011 come un ammasso di terroristi islamisti.
Dove sono i buoni in tutto questo?
I buoni esistevano. Ed erano i Siriani. Un popolo che nel 2011 è sceso in strada come molti altri dalla Tunisia al Bahrein, per protestare contro l’ennesima assurdità di un regime violento e autoritario, spinti da un episodio di per sé “banale”, se si pensa a tutto il disastro che sarebbe successo dopo.
“Alla fine di febbraio, un gruppo di ragazzini decide di imitare i giovani che hanno visto ribellarsi dalla Tunisia all’Egitto. Ripetono lo slogan che hanno sentito in televisione: basta con il regime. Creano la rima con la parola dottore perché così in Siria tutti chiamiamo Bashar Assad: Ajack Al Dor Ya Doctor.
Lo scrivono con lo spray rosso sui muri di cinta in quattro scuole.
La frase viene subito coperta con la vernice bianca, la polizia cerca i colpevoli“.
Siamo a Deera, epicentro della rivolta siriana, e quando i genitori dei ragazzini incarcerati si recano timorosi (il Paese vive fin dai tempi di Assad padre la quotidianità degli arresti, delle sparizioni, dell’esecuzioni in carcere) al commissariato per chiedere nuove dei figli, la risposta che ricevono accende la fiamma siriana: “Dimenticateli”.
Si comincia da Deera: i buoni esistono e scendono in strada, convinti davvero che finirà com’è finita altrove (Egitto, Libia, Tunisia) e che si ritroveranno attorno a un tavolo qualche mese dopo per parlare del loro nuovo governo.
Tuttavia, la storia della Siria è andata diversamente e proprio per questo sembra importante dare valore al tempo: il 2016 non è il 2011. Tra chi combatte, i buoni non esistono quasi più: morti, emigrati, spaventati, sopraffatti dal Re e dalla Regina (Stati Uniti e Russia) della grande scacchiera siriana, a cui non interessa il messaggio iniziale della rivolta, perché l’importante è vincere questa guerra di procura sul suolo siriano. Sui corpi dei Siriani.
E si continuano a lanciare bombe, accuse, proiettili, video, accordi, accordi violati, e pedine: pedine saudite, pedine terroriste, pedine sciite, pedine turche, pedine russe.
Kerry, Lavrov, Assad, Erdogan, tutti grandi manovrieri della polveriera siriana; tutti potenti, ma nessuno buono, nessuno innocente, nemmeno ad Aleppo.
Quando una città è distrutta a causa di un conflitto, che si parli di “liberazione” o di “riconquista” poco importa: è l’essere umano ad aver perso, a qualunque schieramento esso appartenga.
Elle Ti
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