
A Istanbul, la stazione dei pullman Esenler gestisce un milione di passeggeri al giorno, ma anche così non raggiunge la top tre dei terminal più trafficati in questo mondo.
Io non ho ancora visitato gli altri, quindi rimango a bocca aperta.
Dopo che siamo arrivati continuiamo a girare per mezz’ora fino al luogo dove dobbiamo posteggiare: autobus a perdita d’occhio in tutte le direzioni. M’incammino verso l’edificio più grande, che si rivela essere un enorme bazaar coperto. Trovo tutto quello che voglio anche dove non me l’aspetto: chiedo a un signore con una bancarella di scarpe dove posso cambiare dei dollari per delle lire turche, e me li cambia direttamente lui.
Nei corridoi sotterranei della stazione della metropolitana ci sono molti manifesti con un bambino dalla bocca tappata: il viso è dipinto con i colori della bandiera palestinese, la mano con quelli della bandiera israeliana.
Mentre prendo posto nel vagone, mi rendo conto di diventare sempre meno spettatore e sempre più attore di quello che leggo sui giornali: nella striscia di Gaza Israele ha bombardato delle scuole finanziate dall’ONU, sostenendo che Hamas le usi come rifugi.
L’atmosfera a Istanbul è ben diversa da quella che c’era sull’auto che mi ha portato a Katerini, con un turco a tenere in braccio un israeliano.
Sono sicuro di essere sceso alla fermata giusta, però perdo un’ora a girare per lo stesso quartiere a cercare l’ostello. Manco a dirlo, i passanti non hanno idea di dove si trovi.
Non hanno colpa, nemmeno io conosco ostelli a Torino: dormo a casa mia.
Riesco a connettermi alla rete Wi-Fi di un McDonald’s, e scopro che l’ingresso è da una stradina laterale dopo aver attraversato un ampio cortile interno.
Promemoria: leggere sempre la rubrica “come arrivare” su Hostelworld.
“Buongiorno. Mi lasci verificare la prenotazione. Può entrare in stanza dalle dodici. Se vuole intanto può lasciare lo zaino qui”.
“La colazione?…”.
“E inclusa nel prezzo, ma solo da domani”.
“Ho capito. Posso fare una doccia mentre aspetto?”. L’ultima volta che ne ho fatta una è stato due giorni fa, prima del treno da Niš a Sofia, del pullman da Sofia a Plovdiv e di quello da Plovdiv fino a qui. Ne ho un certo bisogno.
“Certo! Le docce degli uomini sono al terzo piano, separati dai gabinetti che si trovano invece al quarto”.
“Va bene, grazie”.
Salgo al terzo piano ed entro in una stanzetta spartana dotata di lavandino, cestino e una doccia, e come scarico un semplice buco nel pavimento, nerissimo come un pozzo senza fondo. Il pavimento è allagato, quindi mi tolgo le scarpe e i calzini e li lascio fuori dalla porta.
Appena mi bagno un pochino mi rendo conto, non senza qualche maledizione, che l’ultima volta che ho usato una toilette ero in un altro continente.
Cerco di riflettere in fretta.
Sono nudo, bagnato, ma ancora sporco.
Non ho delle ciabatte, figurarsi un asciugamano: conto di usare per questo una delle ultime due magliette pulite, e indossare l’altra.
Il problema è che se ne utilizzo una per asciugarmi e andare al quarto piano a usare i water, poi dovrò tornare per finire la doccia e asciugarmi con la seconda, rimanendo senza nulla da indossare.
Mi scappa fortissimo.
Ispeziono ancora una volta lo scarico. Al diavolo, sono nella terra della toilette alla turca: a mali estremi, estremi rimedi.
Superato il tabù psicologico, alla fine non è nulla di che. Riprendo la doccia, mi insapono, canticchio felice e tutto va bene.
Al momento del risciacquo però la schiuma non sembra andare giù, anzi, sembra rigonfiarsi: a questi ritmi, temo che riporterà a galla parti di me a cui pensavo di aver detto addio per sempre.
Terrore.
Fermo subito l’acqua. La situazione non migliora, ma almeno non peggiora. Faccio partire di nuovo l’acqua, piano.
Niente, la schiuma non va giù.
Capisco ora perché i gabinetti siano al quarto piano: in Europa diamo per scontate le nostre fogne, però per molti paesi sono un lusso.
Dovrei saperlo, dal momento che sono stato in Cina, paese dove non si può buttare la carta igienica nella tazza perché s’incastra.
Starnutisco. Sto prendendo freddo, quindi bisogna prendere una decisione.
Pazienza: esco e lascerò una sorpresa a chi viene dopo.
A chi non è mai capitato di trovare dei bagni pubblici inagibili? Ecco in almeno un’occasione sono stato io, confesso.
Anzi, la mia trovata geniale è la seguente: denunciare la cosa alla reception, dare la colpa ad altri e lasciarli spurgare. Pregusto già la mia indignazione: “È vergognoso quello che può fare certa gente!”, ripeto tra me e me, preparandomi il discorso da faccia di bronzo.
Toc Toc. “Ne hai ancora per molto? Sei dentro da un’ora!”.
Maledizione: ci sono testimoni.
Ora devo per forza eliminare le tracce.
Respiro cercando di calmarmi, ma starnutisco di nuovo.
Inizio ad asciugarmi, e rifletto: non esistono forse tante mamme che accudiscono neonati? Non ci sono forse migliaia di padroni di cagnolini che si chinano a raccogliere bisogni per strada ogni giorno? C’è pure un cestino, qui dentro, e dunque…
“Finalmente! Cos’hai fatto in quella doccia, hai partorito?”.
Cerco di non incrociare lo sguardo del ragazzo e mi allontano portando con me il sacco dell’immondizia. Fai che non sia bucato, fai che non sia bucato…
Esco per strada, butto il sacco in un cestino, e ritorno nella sala comune.
“Cosa sta facendo?”.
“Scusi?”.
“Lei, ha appena fatto il check-in, no? L’ho vista uscire con un sacco della spazzatura”.
“Sì. Era… Nel bagno. Molto pieno. L’ho buttato”.
“Ma non si deve preoccupare: passano continuamente gli addetti alle pulizie a cambiarli! Mi dice da dove l’ha preso, così dico di metterne uno nuovo?”.
“Ah… Certo… Sicuramente non… non al terzo piano. Al quarto piano! Sì, dove ci sono i gabinetti”.
“Capisco, è vero si riempiono in fretta, sa com’è: non si può buttare la carta igienica nella tazza, s’intasa…”
“Già, già – ridacchio – Non vorremmo mai che qualcosa del genere accadesse”.
“Guarda chi c’è!”.
Mi giro: è Leo, l’amico conosciuto a Meteora in Grecia. Tempismo perfetto.
“Leo! Come va? Aspettavo ti svegliassi! Com’è Istanbul allora?”, e così dicendo, gli metto un braccio intorno alle spalle e lo accompagno in modo deciso quanto più lontano possibile dalla reception.
“Guarda, anch’io sono arrivato ieri, me la son presa con calma, sono andato solo in un mercatino dove ho trovato una scacchiera da viaggio in legno intagliato. Niente male, eh? L’ho portata giù per fare una partita con qualcuno. Mi annoio”.
“A Istanbul? Non pensavo fosse possibile”.
“Beh, so che Enrico e Maria arrivano domani, quindi ho voluto aspettarli, così giriamo la città insieme”.
Rimaniamo a chiacchierare e a raccontarci cos’abbiamo fatto da quando ci siamo separati a Salonicco.
A un certo punto mi lasciano entrare in stanza e non me lo faccio ripetere due volte.
Negli ultimi tre giorni ho attraversato quattro Paesi, secondo qualsiasi standard ho diritto a un pisolino alle undici di mattino. Scelgo uno dei due letti rimasti liberi nella camerata, e mi addormento istantaneamente.
“George. George…”
“Mmm…”
“George, sono le otto di sera. Ho pensato che potresti avere fame”.
Il mio stomaco reagisce prima della mia mente insonnolita.
“Dai alzati, che poi sarai sballato per giorni”.
“Cos’è ‘sta roba?”.
“È una crema a base di ceci, sesamo…”, e varie altre cose che non mi convincono, “…che ne fanno un piatto vegano molto nutriente”.
Sì, io però non mangio da dodici ore. Sono a Istanbul: come minimo, voglio un piatto kebap. Anzi, due. “Inoltre, la birra e l’anguria erano incluse nel prezzo”. Qui rimango perplesso. Non sono nemmeno sicuro dell’ordine in cui consumarle.
Il pasto in realtà non è così male, condito soprattutto da nuovi incontri con altri ragazzi che alloggiano all’ostello.
“Io sono tedesca, però in realtà sono qui in Erasmus, sto cercando una camera in affitto”.
“Ah, e come mai hai scelto la Turchia? È una meta insolita”.
“È la meta migliore per studiare il turco”. Sto per aprire bocca, ma poi decido di provare uno sport nuovo e ancora poco diffuso: ragionare prima di parlare.
Volevo chiederle perché mai qualcuno vorrebbe fare una cosa del genere, ma mi dico che non tutti devono per forza studiare delle lingue gettonate.
Meglio una studentessa di turco sincera che dieci studenti di francese svogliati, concludo.
“E poi, ci sono gli hammam”.
Grande idea, amica.
Il bagno turco (o hammam, che dir si voglia) è un regalo che dovremmo farci più spesso. Diffusissima nel mondo arabo, questa sauna ha un’umidità pari al 100%: si suda da matti e si eliminano tutte le impurità.
Io ho beccato anche un omone che ha voluto assicurarsi personalmente che nessuno dei miei muscoli restasse teso: mentre mi massaggiava usava anche un guanto di crine di cavallo per insaponarmi.
Mentre sorseggio il tè nella lobby del complesso, mi si chiudono gli occhi: dopo notti passate su sedili di treni e pullman, il massaggio, per quanto ruvido, mi ha fatto bene.
I miei nuovi amici avvolti in asciugamani bianchi sembrano soddisfatti quanto me: c’è persino chi vorrebbe rifare tutto da capo.
Troviamo la forza di alzarci e andarcene, ma abbiamo l’impressione di usare per ogni semplice movimento molti più muscoli del solito.
Arrivati all’ostello ci separiamo per andare ognuno nella propria camera.
Appena apro la porta, un viso familiare mi saluta.
“Ciao”.
Mentre eravamo all’hammam, l’ultimo letto libero della mia camerata è stato occupato da Maria.
George Gavrilita
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Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano
Cap XIII – Il bagno turco