TRANSASIA – Cap. 8: La gloriosa traversata del Caspio

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Riassunto delle puntate precedenti: ora serve a voi lettori, ma vi assicuro che anche all’epoca fu una necessità. Sono in una stanza a Samarcanda, con la testa tra le mani: le cose degli ultimi giorni sono state tante piccole esplosioni, ciascuna con la sua onda d’urto. Non hai finito di assorbire la prima che ecco la seconda. Sono frastornato e il mio cervello mi supplica di fare ordine. Cosa ci faccio, su questo copriletto da pochi denari?
Un mese fa sono partito per un viaggio da Palermo a Pechino insieme ad altri amici
Ci siamo separati ad Atene, e dato appuntamento a Baku, ma a causa di contrattempi io ho raggiunto la capitale azera quando loro erano già partiti
Decido di stravolgere il mio itinerario perché la cosa più importante era continuare il viaggio insieme, ma ora che dopo incredibili perizie sono davanti a loro a Samarcanda, non sembrano per nulla entusiasti di vedermi.
Che facce strane… chissà che gli è capitato.

“Allora, com’è andato il vostro viaggio?” azzardo io.
Francesco alza lo sguardo verso di me, e lascia andare un lungo sospiro.
“Un disastro”, spiega Davide.
“Ancora non mi sono ripreso”, completa Roberto. Capire che il problema non sono io è una magra consolazione quando sembra ce ne siano stati molti altri.
“La Turchia è andata bene. Ci siamo incontrati quasi subito con questo pazzo”, inizia il racconto Roberto, riferendosi a Davide. “Lui ha voluto partire da subito in quarta, con una tre giorni non-stop in autobus da Parigi a Istanbul. Abbiamo visto le moschee, immagino le avrai visitate anche tu”.
“Ho visto che avete attraversato il ponte sul Bosforo!”.
“Sì, figo essere esattamente al confine tra due continenti, e potersi muovere dall’uno all’altro”, interviene Davide.
“Ci siamo visti anche con Chiara, l’amica del Turkmenistan che ci è stata presentata dal nostro prof di sociologia. Era lì in vacanza, l’abbiamo scoperto quasi per caso vedendo le foto che pubblicava su Facebook”, prende la parola per la prima volta Francesco. 
“Poi siamo andati ad Ankara. Guarda, non ti sei perso molto”, riprende Roberto.
“Dai non è stata così male!”, lo corregge Francesco, quello che ci teneva di più ad andarci. “Abbiamo rivisto Daniele, il nostro prof. di storia, ti ricordi? Ora è tipo Viceministro della Difesa o una cosa del genere, lo dicevo che era troppo sveglio per rimanere solo nelle università. È un peccato che tu non l’abbia potuto incontrare”.

A causa di questo incontro Francesco ha voluto attraversare la Grecia più in fretta, mentre io per colpa di una conferenza ho voluto restare in Grecia di più. Quando entrambe queste opportunità si erano concretizzate – solo un mese prima della partenza – l’unico compromesso che eravamo riusciti a trovare era stato quello di separarci e darci appuntamento a Baku. 

“Dopo una giornata di treno siamo arrivati infine a Batumi, in Georgia”, continua Roberto.
Batumi: mi ricordo che avevamo parlato di quella città, e mi era spiaciuto un sacco non poterci andare. Per me era una specie di simbolo: dalle sue rive, guardando ad ovest, avrei potuto scorgere l’altra parte del Mar Nero. Lì, con un po’ di fortuna, avrei potuto scorgere Măcin, la città rumena dove sono nato.
“Scusa, ma siete andati subito in Georgia? Avete saltato la Cappadocia? È considerata l’attrazione numero uno della Turchia, persino davanti a Istanbul!”.
“Non c’era più tempo, dovevamo deviare troppo verso sud. Almeno a Batumi ci siamo fatti il bagno”. Dalla risposta di Francesco comincio a intuire sempre più chiaramente che abbiamo priorità diverse in questo viaggio.
“Poi siamo stati solo un giorno a Tbilisi, non c’è niente da fare lì”, aggiunge Davide.

Finora sono stati piuttosto asciutti nel racconto, e fin qui li ho capiti: in fondo sono posti che conosco, mi dicevo, e poi sono palesemente stanchi. Dai, non essere paranoico.
Però questa frase su Tbilisi mi preoccupa: Walter non finiva più di farmi vedere cose, e adesso mi chiedo se quando dicono che ad Ankara “non mi sono perso molto”, la realtà sia davvero così.
Forse i miei compagni di viaggio non trovano le gemme sul percorso per un motivo molto semplice: non gliene frega niente di cercarle.

“Dopo quello, è stato tutto un degenero. Siamo arrivati a Baku, abbiamo mollato gli zaini in albergo, e siamo andati dritti al porto per informarci sulla traversata”, spiega Roberto. “Per strada, incontriamo un tizio che aspettava che la nave salpasse da sei giorni, ti rendi conto? Però non c’è alternativa, non ci sono gli orari in rete, lo sai.
È un traghetto, ma oltre alle macchine e a qualche passeggero trasporta anche delle scorie nucleari per arrotondare.
Siccome il turismo non è la prima priorità del capitano, si salpa solo quando la stiva è abbastanza piena e il mare non è mosso. Bene, il tizio ci dice che andava di corsa a fare i bagagli e la spesa, che il capitano gli aveva detto che avrebbero levato le ancore il giorno dopo!”

“Compà”, riprende Francesco, “abbiamo attraversato tutta la città a piedi per andare all’ufficio giusto e comprare i biglietti. Non capiscono subito cosa vogliamo, fanno telefonate su telefonate… Non c’è stato molto da discutere sull’aspettarti o meno George, non potevamo correre il rischio di aspettare altri sei giorni, perché nel frattempo ci sarebbero scaduti i visti. Ti abbiamo mandato comunque un SMS”.
Insomma, raccontata così la cosa prende la sua logica: il più classico dei mors tua vita mea.
M’impongo di pensare che anche per loro possa essere stata una decisione sofferta. O almeno, più di quanto le parole di Francesco riescano a trasmettere.

“E dopo?”, lo incalzo.
“Siamo andati a comprare cibarie e acqua. Non l’avessimo mai fatto!” continua Francesco. “Abbiamo preso delle conserve russe, qualcosa del genere, e le abbiamo mangiate alla vigilia. Siamo stati tutti male compa’! Da allora, solo cibo occidentale, non possiamo rischiare”.
Così dicendo mi fa vedere la spesa che hanno appena fatto a Samarcanda: Pepsi, Pringles e Nutella. Una botta di vita, proprio.
“In più, ci siamo accorti solo qualche ora prima di partire che avevamo anche i biglietti sbagliati!”, riprende Davide. “Li teneva Roberto, ed erano scritti tutti in cirillico. Al mattino li ho voluti guardare per vedere quanto mi ricordavo dei miei corsi di russo, ma non riuscivo a vedere nessuna parola che somigliasse ad ‘Aktau’, la nostra destinazione in Kazakistan. C’era invece più di una volta la scritta ‘Turkmenbashi’, un altro porto in Turkmenistan! Abbiamo preso un taxi e siamo andati a cambiarli di corsa, quasi salpavano senza di noi!”.
“A posteriori avrei voluto lo facessero…”, rimpiange Roberto.

“In teoria doveva durare trenta ore la traversata, però ovviamente il mare è imprevedibile no? Vuoi che non ci becchiamo la tempesta…”, continua Davide.
“Ci abbiamo messo più di due giorni compa’!”, aggiunge Francesco. “Non c’era niente da fare, i marinai non parlavano inglese, come tutti quelli che avevamo incontrato finora, solo che questi manco ci filavano, sembravano sempre occupati”.
“Magari erano timidi, non volevano entrare nella vostra cabina…”, suggerisco io.
“Ma quale cabina!”, risponde Francesco. “All’inizio eravamo sul ponte, a goderci le onde e il vento. Dopo un paio d’ore però non ne potevamo più, e siamo scesi sottocoperta, in un corridoio praticamente, dove passava sempre gente. Quando ha iniziato a piovere stavamo lì perché non avevamo alternativa, ci dava aggiornamenti sul meteo Roberto, che risaliva regolarmente per vomitare, e ritornava sottocoperta inzuppato”.
“Almeno dopo un po’ di volte che mi hanno visto fare questa cosa, si sono impietositi e ci hanno dato una cabina per davvero”.

“Tempo però di chiudere gli occhi e ci svegliano, dobbiamo scendere e passare i controlli”, continua Davide.
“È stato bellissimo tornare sulla terra ferma”, lo interrompe Roberto, con gli occhi che gli s’illuminano.
“Anche se la terra era un deserto?”, lo zittisce Francesco. 
“Al porto avevamo chiesto dov’era la stazione, dato che non avevamo nulla da fare ad Aktau, era solo una tappa obbligata per poi prendere un treno e continuare il viaggio”, spiega Davide. “I doganieri avranno anche indicato la giusta direzione, però la stazione sembrava un capannone abbandonato come tutti gli altri edifici del porto. La prima volta ci siamo passati accanto senza vederlo, e abbiamo fatto un girotondo nel deserto per qualche ora…”
“Saranno stati 20km con gli zaini in spalla” interviene Francesco.
“…e alla fine siamo tornati indietro per chiedere altre indicazioni. Venendo dall’altra parte, abbiamo visto l’insegna. Dove portava questo treno già?”.
“Beyneu” risponde Roberto.
“Vero! Arriviamo a Beyneu, città di frontiera fra Kazakistan e Uzbekistan, troviamo un posto che un tempo doveva essere un albergo per le spie, chi altri starebbe in un posto così? Aktau almeno aveva il porto, qui non c’è niente, capisci? Niente”.
“Carta da parati a righe marroni e rosa, puzza di piscio, vabbè hai capito. Era un albergo a ore, e di default ci vendono 12 ore. E arriva il bello: questi vengono alle 4 di notte, e si mettono a svegliarci!” spiega Francesco. “Noi non capivamo niente, era il primo letto che toccavamo da giorni, e loro accendono le luci arrabbiatissimi. Quando capiamo cosa vogliono, ci offriamo di pagare di più pur di restare, dov’è il problema? Almeno ci riposiamo. Ma loro inamovibili. Come se avessero altri clienti a far la fila!”.

“Prendiamo tutta la nostra roba e andiamo nella stazione capannone ad aspettare il treno per Samarcanda, non avevamo nient’altro da fare”, continua Roberto. “Prima di addormentarci per fortuna ci eravamo già comprati roba da mangiare e i biglietti, noi poveri illusi che volevamo dormire fino a pranzo”.
“C’è tutti i giorni un treno per Samarcanda?”, chiedo io sorpreso.
“Figurati, anche questo una volta a settimana, ma abbiamo avuto fortuna che partiva il giorno dopo il nostro arrivo”.
“Quelle ore non passavano più”, aggiunge Francesco, “anche qui noia, mi rimanevano solo i PDF dell’Economist sull’iPad, avevamo finito tutte le riviste, i romanzi, i giochi sul cellulare…”

“Ci siamo poi addormentati da seduti no?”, ricorda Davide. “Come anche il traghetto, abbiamo rischiato che anche il treno partisse senza di noi”.
“E di nuovo, a posteriori avrei voluto lo facesse” ripete per la seconda volta Roberto. “Avevamo le cuccette, no? Io avevo quella di sopra, quella davanti alla finestra. Mi faceva ancora male lo stomaco dopo la sbobba mangiata in Azerbaigian e vomitata sulla nave, quindi avere anche la corrente di notte non è che mi facesse bene. Io chiudevo la finestra, e mi svegliavo nel cuore della notte che qualcun altro la apriva. La richiudevo, mi risvegliavo tossendo…”.
“Non avevano nessun rispetto!”, interviene Davide, uno che raramente si scalda. “Bevevano l’acqua dai nostri boccioni mentre dormivamo, e poi parlavano sempre, chiedevano sempre ‘Where are you from?’ e poi ridevano da soli”.

“La prima notte non dormivamo perché la gente ci dava fastidio, la seconda ci teneva svegli la tosse da Godzilla di Roberto”, aggiunge Francesco.
“Scusa compa’”
“No no, tranquillo, mica ce l’ho con te. Più di due giorni così, e fuori sempre lo stesso paesaggio, sabbia chiara, sabbia scura, rocce e sassolini. Sabbia chiara, sabbia scura…”
“E quando arriviamo qua a Samarcanda, la nostra fortuna finisce”, conclude Davide.
“Chiamala fortuna!”, grida Francesco.
“Voglio dire, il traghetto e il treno per Samarcanda almeno non li abbiamo dovuti aspettare, no? Invece il treno per Almaty è partito ieri mattina”.

“Per questo prima che prendessi il mio volo per Tashkent, mi avete detto di prendere quello della prossima settimana, perché prima non ce n’è un altro!”, esclamo io.
“Esatto”, risponde Roberto.
“E tu, cos’hai fatto in queste ultime settimane?” chiede Davide dopo una pausa di mezzo minuto, finito il loro racconto.
La verità è che a loro più di chiunque altro voglio raccontare delle vette di Meteora e di Maria, di Walter e della movida georgiana, e di come me la sono cavata a Baku, ma li vedo così stanchi, distrutti, depressi che mi sento adesso più che mai in colpa per la separazione, o perlomeno per non aver condiviso parte della loro sofferenza.
Soprattutto perché, tolti gli ultimi giorni, la mia esperienza è stata totalmente diversa dalla loro.

George Gavrilita

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LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”

Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano

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