Un sultano alle porte dell’Europa

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PER CAPIRCI QUALCOSA TRA SIGLE E DATE:

Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo): partito conservatore e islamista di centro destra, fondato nel 2002 da Erdogan e da allora detentore incontrastato della maggioranza assoluta in parlamento. Da questo partito proviene anche l’attuale primo ministro turco, Davotuglu, che in molti considerano solamente una marionetta nelle mani del presidente della repubblica Erdogan.

Hdp (Partito Democratico dei Popoli): partito filocurdo di opposizione fondato nel 2013, portavoce delle minoranze scarsamente rappresentate nel Paese, curdi, comunità lgbt e donne tra le prime file. I suoi due leader sono Demirtas, in cui alcuni rivedono lo spirito coraggiosamente controcorrente del primo Tsipras, e Yüksekdağ. 

Elezioni parlamentari del 7 giugno 2015: oltre all’ovvio scopo di eleggere i 550 membri della Grande Assemblea Nazionale Turca, queste elezioni erano anche un importante test per il partito di Erdogan ed Erdogan stesso. Se l’Akp avesse infatti raggiunto la maggioranza e almeno 330 seggi in parlamento, il Presidente avrebbe potuto avviare le procedure per modificare lo status turco, e trasformare la repubblica parlamentare in vigore dal 1924 in una repubblica presidenziale.

Conseguenze del voto: molto inaspettatemente, tuttavia, le elezioni hanno visto la sconfitta degli ambiziosi progetti di Erdogan, poiché il suo partito — comunque vincente — ha ottenuto solamente il 40% di voti e 258 seggi in parlamento. Altrettanto inaspettato è stato il successo dell’Hdp, con il 13% di voti e 80 seggi ottenuti per la prima volta in parlamento.
Incapace, a ragione o per strategia, di trovare un accordo con gli altri partiti per formare una coalizione di governo, l’Akp ha quindi dovuto indire le elezioni anticipate dello scorso 31 ottobre.

DA UN’ELEZIONE ALL’ALTRA 

Dalle elezioni di giugno alle ultime del 31 ottobre, la Turchia ha vissuto una sorta di doppia vita. Istituzionalmente parlando, infatti, il Paese si è ritrovato in una sorta di stasi, ma politicamente parlando è rimasto tutt’altro che immobile e lontano dalla cronaca internazionale. 

Nel primo caso, la Turchia ha vissuto cinque mesi di attesa e di vacuum parlamentare prima di capire se a sottrarla da questo limbo sarebbe stato un governo di coalizione, ipotesi mai realizzata ma avanzata all’indomani delle elezioni, o delle votazioni anticipate come quelle a cui si è giunti la scorsa settimana.

Nel secondo caso, invece, il Paese di Davotuglu si è mostrato irrequieto e deciso in politica estera, cancellando l’immagine d’inerzia che si era cucito addosso durante i combattimenti a Kobane. Facendo un passo avanti in politica estera, la Turchia ha siglato un accordo con gli U.S.A. (a cui ha concesso di usare le zone di Incirlik e Diyarbakir come basi militari per le missioni aeree contro l’IS) e ha dato avvio alla propria personale offensiva contro lo Stato Islamico. 

Questa improvvisa audacia nel combattere l’IS e dare finalmente il proprio contributo alla Coalizione, non deve però né sedurre né essere creduta fino in fondo, poiché a pochi giorni dalla sua propaganda, ha mostrato una duplice faccia. Limitandosi ad attaccare esigue postazioni dei terroristi dell’IS, la Turchia ha infatti sfruttato il beneplacito internazionale e la mobilitazione dell’esercito per attaccare le basi curde irachene e porre di fatto fine alla tregua in vigore da due anni.

Dimentica ancora una volta dei propri doveri in quanto membro della Nato e della Coalizione, la Turchia ha preferito investire i propri sforzi nella lotta allo storico e personale nemico al quale avrebbe dovuto invece allearsi per combattere l’IS: il popolo curdo.

Nei cinque mesi tra un’elezione e l’altra, il Paese non si è però solo mosso repentinamente verso l’esterno, ma è stato anche scosso all’interno: è entrato in un clima di tensione e paura durato fino al 31 ottobre dopo due ambigui attentati a Suruc e Ankara perpetrati durante due manifestazioni (pro curdi la prima e per la pace la seconda) che hanno causato in totale più di 100 vittime e i cui presunti responsabili identificati nello Stato Islamico sembrano essere poco credibili.

IL VOTO DELLA PAURA

Così è stata chiamata la raccolta alle urne di sabato scorso. 

C’è stata paura tra i membri dell’Hdp che, all’indomani dell’attentato di Ankara, per il timore di essere nuovamente vittime di attentati o intimidazioni come avvenuto durante l’estate, hanno deciso di interrompere la campagna elettorale, facilitando il vantaggio già ampio dell’Akp e degli altri partiti.

C’è stata paura tra gli elettori dell’Akp, per i quali i veri responsabili degli attentati sarebbero stati i terroristi curdi come suggerito da Erdogan, nell’estremo e perfettamente riuscito tentativo di “criminalizzare” la spina nel fianco rappresentata dal partito Hdp.

Ma paura anche nel mondo della stampa che nelle ultime settimane è stato pubblicamente vittima di violenze e censure: il giornalista Ahmet Hakan è stato picchiato davanti a casa sua dopo aver criticato la svolta autoritaria di Erdogan in un programma televisivo e due canali televisivi di opposizione — Bugün TV et Kanaltürk, entrambi con sede a Istanbul —sono stati chiusi dalla polizia di fronte allo sguardo inerme e basito dell’opinione internazionale.
Va ricordato inoltre come la stessa tv di stato non abbia mostrato alcun pudore nel suo favoritismo verso Erdogan e l’Akp e abbia garantito 59 ore di copertura alla campagna elettorale dell’Akp e solamente 6 ore e mezza in totale agli altri partiti messi insieme.

La paura non ha risparmiato nemmeno chi a giugno si era espresso contro Erdogan, ed è questo ultimo genere di paura che ha permesso all’Akp di avere una volta per tutte la meglio alle elezioni. Coloro che dopo questi mesi di tensione e instabilità hanno cominciato a chiedersi se non fosse stato uno sbaglio remare contro il partito che per più di dieci anni aveva garantito una generale stabilità al Paese, hanno fatto marcia indietro e sono tornati sui loro passi, votando per Erdogan.

E’ stata quindi la paura a vincere, la paura causata da una tensione palese e progressiva cominciata in estate e forse non casualmente legata alla sconfitta dell’Akp del 7 giugno. 
In seguito a un concatenarsi di eventi drammatici e tutt’altro che trasparenti, il partito di Erdogan ha riottenuto la maggioranza assoluta e 316 seggi in parlamento, non abbastanza per invertire lo status quo del Paese, ma comunque sufficienti a ribadire la propria forza e unicità sugli altri partiti, specialmente sull’indebolito Hdp che durante queste elezioni ha ottenuto solo il 10 % dei voti.

UNA NUOVA “DEMOCRATURA” AI CONFINI DELL’EUROPA?

Questo neologismo che risale all’inizio degli anni ’90 indica un tipo di governo apparentemente democratico che tuttavia cela svolte autoritarie nella libertà di stampa e opinione, tali da farne una simil dittatura.

Utilizzato di recente per descrivere la Russia di Putin, l’Israele di Netanyahu e le modalità con cui il presidente Erdogan ha condotto la sua ultima campagna elettorale, in futuro potrebbe attagliarsi anche alla nuova Turchia, sempre meno europea e sempre più mediorientale.

Tre cose sono però certe dopo questa vittoria dell’Akp:

  1. il partito vincente non ha nessuna intenzione di condividere il potere con gli altri partiti;
  2. il Paese sembra a questo punto distanziarsi ulteriormente ma senza troppi rimpianti dall’Unione Europea;
  3. il modello di uno Stato laico, ponte tra l’Occidente e un Medio Oriente sempre più esplosivo che gli U.S.A e l’U.E. speravano di poter usare a proprio vantaggio per risolvere i conflitti limitrofi, sta lentamente sfumando in utopia.

Per averne conferma è sufficiente guardare i video girati nelle sedi dell’Akp alla fine dello scrutinio: imperversano i ringraziamenti ad Allah e nemmeno il primo ministro Davotuglu vi si sottrae; le persone usano le bandiere della Turchia come tappeto sul quale piegarsi e pregare; i ragazzi intervistati urlano felici “adesso saremo finalmente soli al governo” e “questa vittoria è la vittoria dell’islam, è l’islam a vincere stasera” e chi non vuole parlare di religione parla di stabilità.

“Il nostro popolo ha scelto la stabilità […], inshallah la Turchia continuerà a svilupparsi e a crescere in maniera stabile”, dice il deputato Ünal Kacir. La borsa di Istanbul, così come il valore della lira turca, sembrano dargli immediata ragione la mattina seguente.

E il presidente Erdogan, il padre della patria investito, o investitosi, di un così rispettato ruolo messianico? Poco dopo il risultato elettorale, si è recato alla moschea di Eyup, il luogo dove un tempo si recavano i nuovi sultani dell’Impero Ottomano per pregare.
Ormai abituati a un sedicente califfo a sud della Turchia, la presenza di un sultano vicino all’Europa appare l’ennesimo e imprevisto ritorno al passato del nostro secolo.

Elle Ti

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