TRANSASIA – Cap. 11: La Pepsi di Tamerlano

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Resto incantato a guardarla ballare, a guardare il modo in cui muove i fianchi e mi sorride. Anche lei guarda solo me, anche se ha addosso gli occhi di tutto il locale.

“Che fai compa’, dalle qualcosa se no smette e se ne va!”.

Giro la testa verso Francesco, e mi chiedo come sia arrivato in questo locale a Salonicco. Non doveva essere partito in Turchia?

 

“Lascia, ci penso io”. Vedo Roberto tirare fuori una banconota e avvicinarsi verso Maria, e impazzisco. Quasi rovescio il boccale di birra sul tavolo per afferrargli la mano e fermarlo.

“George, stai bene?”, mi chiede Davide.

Giro la testa di scatto nella sua direzione, e così facendo vengo accecato da un riflettore. Quando mi sono asciugato le lacrime provocate dalla luce intensa, Maria se n’è già andata.

“Bravo! Sei contento ora? Guarda cos’hai combinato!”, mi rimprovera Francesco.

Faccio mente locale.

Perché Maria indossa un busto rosso con le perline, una coroncina, e una lunga gonna di seta?

Perché ho bevuto troppa birra, e non sono più a Salonicco, ma a Samarcanda.

 

Qualche ora fa, dopo essere tornato in ostello dalla piscina più spaventosa mai vista, io e i miei compagni appena ritrovati siamo usciti per cena.
Nel ristorante che abbiamo scelto siamo stati gli unici clienti per tutta la durata nella nostra permanenza.
Col suo stile da diner americano rimane forse troppo elegante per la gente del posto, ma è situato troppo lontano dagli alberghi a cinque stelle dove alloggiano la maggior parte dei turisti, il che gli fa perdere molta della sua potenziale clientela.
Per la fascia di persone come noi, che stiamo nell’unico ostello a Samarcanda, non sembrano esserci servizi dedicati.
Siamo davvero i soli a fare un viaggio del genere?

 

“…settanta, ottanta, poi passami quelli piccoli, sì, quelli… uno, due… Quant’è già?”.

“Ottantaquattromila”.

“Ecco. E grazie!”.

“Aspetta a uscire Roberto, mica ci sbrighiamo. Rimettiamo prima i soldi nel sacchetto, non facciamoci vedere in giro col malloppo”.

“Dai, venticinque euro per mangiare in quattro non è male. Sopra gli hamburger ci hanno fatto pure le faccine sorridenti con il ketchup, avete notato?”, ha commentato Francesco.

“Venticinque euro in Uzbekistan? Dovremmo poterci comprare una macchina con questi soldi”, è intervenuto Davide.

“Raga, chissene, è la prima sera in questo viaggio che siamo davvero tutti e quattro insieme” ha concluso Roberto. “Io non ne posso più di mangiare scatolette. Per una volta possiamo anche mangiare in un posto un po’ più caro”.

Ero d’accordo con Davide: rispetto al costo della vita locale ci hanno spennati, ma è anche vero che non siamo nemmeno a metà di questo viaggio, e ne abbiamo già passate abbastanza da meritarci un piccolo festeggiamento.

 

bar star

“Davide ce l’hai con te la torcia? Non vedo più nulla”.

“Ringrazia che ci sono le strade asfaltate, volevi mica anche i lampioni?”, ha scherzato Francesco.

“Ci hanno detto di andare da queste parti, no? È incredibile, dovrebbe essere la zona della nightlife, ma non c’è un’insegna che sia una”.

“Aspetta, guarda lì!”. 

Come falene verso la luce, ci dirigiamo verso il “Kafe Bar Star”, ma arrivati davanti alla porta d’ingresso ci guardiamo l’un l’altro: non si sente nessun rumore.

Scendiamo nel sottosuolo e veniamo accolti da un remix troppo velocizzato di “Happy” di Pharrell Williams: là c’è il bancone. È una replica abbastanza fedele di un pub irlandese, fuori luogo però in quella grande stanza piastrellata di bianco, con piccoli tavolini rotondi circondati da grandi e comodissime poltrone rosse.

 

“Buona sera! Benvenuti! Siamo a vostro servizio! Prego seguitemi!”.

Una cameriera ci ha accolti e portati verso un angolo della stanza, dove con davvero poca discrezione un’altra cameriera ha fatto sloggiare degli altri clienti uzbeki.

“Qui va bene? Cosa posso portarvi?”.

“Iniziamo con delle birre, va bene a tutti?”, propone Francesco.

“Sì dai, portaci quattro birre grazie”, concorda Roberto. Poi si gira, sgrana gli occhi e aggiunge, una volta che la cameriera se n’è andata: “Raga, siamo entrati qua in ciabatte, e sbattono fuori gli altri per farci posto, vi rendete conto?”.

“Penseranno che siamo degli occidentali imbottiti di soldi”, ha suggerito Davide.

 

Io devo andare in bagno, ho la vescica che è un dirigibile e ficcarci sopra mezzo litro di birra non migliorerà la situazione.

Vago fra le varie salette laterali, alcune private, altre con tavoli di biliardo, trovarlo è un’impresa: le porte sono tutte uguali, e per terra non c’è soluzione di continuità, sempre le stesse anonime piastrelle. Comunismo pragmatico all’opera, mi sono detto: la priorità è pulire in fretta le bevande rovesciate o – sic! – il vomito, mica l’estetica.
Faccio quel che devo fare, tiro l’acqua, niente. Riprovo, niente. Regola di vita in questi casi: entrati in un bagno sconosciuto, come prima cosa si tira l’acqua per vedere se funziona, e poi si fa tutto il resto, è la tecnica base. Trovo una sorta di sgabello, ci salgo sopra e inizio ad armeggiare con la vaschetta: tolgo il coperchio, paciocco il galleggiante e tutto torna alla normalità – per questa volta me la sono cavata, l’acqua è scesa.

 

Rientrando nella sala, la musica è totalmente cambiata: è stata sostituita da una melodia ritmata e arabeggiante. Resta una sola luce, puntata sulla danzatrice del ventre che se n’è appena andata dal nostro tavolo.
Va a ballare per i clienti dopo di noi per mezzo minuto, ma al tavolo ancora dopo un signore le mette delle banconote nell’elastico della gonna più volte, e prolunga così la sua permanenza.
A un certo punto la danzatrice mette anche un piede sopra il ginocchio del tipo e scuote le spalle molto, molto vicino al suo viso. Il tizio ammicca ogni tanto i suoi amici, ringalluzzito non poco: allarga le spalle seguendo uno schema corporeo quasi ancestrale, si mette in mostra. Pare crederci fino in fondo, è illuso da questa messinscena di corteggiamento.
La danzatrice si sposta di nuovo, e seguendola con lo sguardo mi accorgo che anche in questo bar, come in Georgia, non c’è una donna che non sia una cameriera.

 

“Compa’, forse rifà il giro. Teniamo pronti i soldi!”, esordisce Francesco.

Io lo guardo un po’ stupito.

“Ragazzi, capisco la cena, e anche la birra, però siamo ancora bloccati qua sei giorni, non mi sembra il caso di…”

“Quando ci ricapita una danzatrice del ventre privata, compa’? Poi poverina, sicuro non le danno niente, ha solo le mance per campare…”.

La poverina intanto è costretta a rallentare le sue movenze, per non far cadere tutte le banconote infilate intorno alla vita.

 

montagne di banconote

 

“George, alla buon’ora! Riconta questi per favore”.

Il giorno dopo mi risveglio letteralmente circondato da mucchi di banconote, ma nonostante tutto sembrano non bastare.

“Seicentotrenta, seicentoquaranta, seicentoquarantacinquemila”.

“Questi per l’ostello Fra, e quanti ne avanzano?”, chiede Roberto.

“Niente compa’, pochissimo…”

“Dai, intanto andiamo a pagare, sennò non ci lasciano nemmeno partire da questo buco”.

 

L’oste prende i fasci di soldi e non li conta nemmeno, ci chiede invece i passaporti.

“Ah, ma tu non sei italiano! Romania! Ceaușescu! Che uomo! Mangiava sarmale cucinate nello champagne, che buongustaio…”.

 

Lo guardo mentre ricopia i dati dai nostri passaporti sui foglietti che abbiamo ricevuto alla frontiera. Per ogni giorno di permanenza nel paese, un albergatore registrato deve mettere un timbro su questo foglietto, altrimenti sono guai. Fare couchsurfing in Uzbekistan, per dire, è illegale.

 

“…Nadia Comăneci poi! Che donna! Il primo 10 perfetto nella storia della ginnastica artistica!”, e continua a scrivere. Diciamo che in patria siamo più fieri dell’una che dell’altro, però bisogna comunque dire che da queste parti c’è una percezione della Romania diversa da quella a cui sono abituato in Europa.

 

muqarnas nicchia mausoleoDopo lo svago e il riposo, siamo pronti a riprendere i giri esplorativi. Prima tappa è il Gur-e-Amir, il mausoleo di Tamerlano, fondatore di un impero che si estendeva dalla Georgia fino all’India settentrionale.
I suoi discendenti hanno fondato la dinastia Moghul, i musulmani che hanno controllato l’India per secoli. Non sorprende allora che il Gur-e-Amir sia servito come modello anche per il Taj-Mahal.

Paghiamo l’ingresso ed iniziamo ad esplorare il cortile interiore.
All’interno del mausoleo vero e proprio rimaniamo estasiati dalle muqarnaṣ, le varie celle in cui è diviso il soffitto delle nicchie, quasi fosse l’interno di un alveare.
Le piastrelle, in prevalenza blu, sono ricoperte o da motivi geometrici e floreali, oppure da scritte in arabo. Ci sediamo sulle panchine di marmo e ci guardiamo intorno.
Ci sono anche altri a fare quel che facciamo noi, ma siamo di gran lunga i turisti più giovani. In questo caso, non penso sia a causa di un disinteressamento alla cultura delle nuove generazioni, ma proprio perché tutti i segni puntano nella stessa direzione: con le nostre risorse, un viaggio del genere non s’ha da fare.

 

george davanti mausoleo

Dopo aver finito la visita, è ora di pranzo. “Andiamo magari in un posto che vi è piaciuto i giorni scorsi”, propongo io.

“No no, andiamo al supermercato”, sentenzia Francesco.

Pringles e Pepsi: questo è il pasto che ci tocca, di nuovo. Che desolazione. Provo a scamparla, tentando di improvvisare un po’ di anglo-russo-turco coi passanti per strada: amico, mi sai indicare un kebap o qualsiasi cosa a buon mercato? Ma nessun posto sembra abbastanza igienico per i miei compagni: dopo le disavventure in Azerbaigian, non si fidano più del cibo locale e mangiano solo cose importate. Il problema è che, oltre a non riempire, sono proprio i prodotti più cari.
Roberto mi offre dell’acqua da un bottiglione Nestlé da cinque litri, e insieme a metà della forma di pane locale che io ho comprato per 500 som, pari a 11 centesimi al cambio di oggi, posso dire di aver risolto il problema-pasto.

 

Davide scuote il tubo delle Pringles, prima di rassegnarsi alla realtà: non ce ne sono più. Sorrido, vedendoci una metafora della faccia peggiore del capitalismo: un’apparenza luccicante, ma un piacere solo temporaneo, che spreme le risorse fino all’ultimo.
Poi mi rabbuio, rendendomi conto che in questo caso le risorse siamo noi.

 

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