
Salgo in macchina sul sedile del passeggero. È una squadratissima, vecchissima, insabbiatissima Lada verde, con tappezzeria nera anonima e un Arbre Magique sbiadito come unico ornamento.
Il padrone dell’unico ostello a Samarcanda lancia il suo borsone nel portabagagli, che chiude poi con un clank e sale accanto a me.
Se mi avessero detto che il mio primo pomeriggio in Uzbekistan lo avrei passato in piscina, non ci avrei creduto un istante.
L’auto passa a malapena su una stretta stradina, della stessa pietra color sabbia di cui sono fatti anche i muri delle case.
Schiviamo dei bambini che giocano a palla, e mi rendo conto che non ne ho mai visti di quella età giocare a palla così silenziosamente. Fan loro compagnia anziani seduti su sgabelli davanti alle porte d’ingresso delle abitazioni, donne con lunghe gonne e velo in testa, uomini in tute di lavoro blu o verde scuro e coppole in coordinato.
Appena qualcuno mi vede sul sedile davanti, interrompe quello che sta facendo per seguire la macchina con lo sguardo.
“Sei silenzioso, metto un po’ di musica?”.
Mi giro verso l’albergatore. Ho appena ricevuto una montagna di informazioni dai miei compagni di viaggio, e probabilmente le sto ancora digerendo.
O forse è quello che voglio credere, e sono solo rimasto male perché ritrovarsi non è stato bello come me l’aspettavo, e sicuramente meno bello rispetto al tempo che ho passato senza di loro in Grecia.
“Sì sì, faccia pure”.
Dopo qualche minuto mi sorprendo a canticchiare molte delle canzoni che passano alla radio, e allora ci faccio più attenzione. Una dopo l’altra si susseguono tracce di Morricone, Al Bano, Joe Dassin, Celentano, Little Tony, e molte altre che hanno avuto il tempo sia di diventare famose che di essere dimenticate, ben prima che io nascessi.
Evidentemente il mercato musicale uzbeko è meno affamato di novità rispetto a quello occidentale.
“Eccoci arrivati. Io faccio prima una corsetta, se tu vuoi andare subito in piscina è di là”.
“Inquietante” penso sia la parola migliore per descrivere la scena che ho davanti. Ideata probabilmente anche per ospitare gare, la piscina è circondata da spalti, ma molte delle sedie di plastica sono divelte.
Le altissime vetrate sono talmente sporche che la luce entra solo dalle crepe.
Nonostante tutto, ho dormito troppi giorni sotto l’aria condizionata degli aeroporti e attraversato troppi deserti per farmi scappare l’occasione di un bagno rinfrescante quando mi si presenta. Senza pensarci troppo decido di ritornare nell’elemento che mi fa sentire più a mio agio, l’acqua.
“Sta già bollendo?”.
“No Maria, però manca poco. Abbiamo messo il sale?”.
“Sì, l’ha messo Enrico”.
“Bene, come sta procedendo col formaggio?”.
“Una seconda grattugia aiuterebbe”.
“Spacco le uova?”.
“Solo all’ultimo, quando la pancetta è già fritta e siamo pronti per combinare il tutto”.
L’atmosfera che c’era a Salonicco due settimane prima è stata probabilmente la migliore che avessi mai trovato in un ostello.
Una dozzina di persone, alcuni sconosciuti fino a poche ore prima, si sono unite al piano carbonara, chi a tagliare chili di cipolle, chi a comprare vino, chi offrendosi volontario per lavare i piatti. Nell’aria c’era odore di soffritto e di spensieratezza estiva.
Non avevo mai cucinato per così tante persone tutte insieme, però alla fine tutti erano rimasti soddisfatti.
“Guarda George, io ero abituato a mangiare sulle navi di lusso da grandi chef, però questa pasta non ha nulla da invidiare!”.
“Esageraaato! E poi Leo, l’abbiamo fatta tutti insieme questa carbonara, no? Mica è solo merito mio”.
“È cosi!”, interviene Enrico. “Alla nostra!”.
Facciamo un brindisi e a turno rispondiamo alle domande preferite di chi si incontra in un ostello: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
In fondo i viaggiatori sono una manciata di esistenzialisti.
Più beviamo, più aderisco al luogo comune che vuole “il viaggio come metafora perfetta per descrivere la vita”; quando il vino finisce, mi convinco del contrario: la vita è una metafora per descrivere un viaggio. All’inizio non capisci nulla e tutto ti è nuovo, poi pensi solo a divertirti, ma se hai saputo dare importanza alle cose giuste, quando la vita finisce, avrai qualcosa da raccontare.
Verso mezzanotte qualcuno propone di andare in discoteca e tutto il gruppo si unisce al volo. Essendo un giovedì, i locali sono abbastanza vuoti, ma siamo sufficienti noi, col nostro mix di nazionalità, per portare la festa.
Maria è sempre al centro della pista da ballo, accerchiata da ragazzi del nostro gruppo e non, mentre Enrico si prende un drink al bancone. Li ho conosciuti ieri, e devo dire che per me sono una coppia modello.
“Bello vedervi così rilassati uno con l’altro”, gli dico. “In Italia ci sono dei ragazzi che portano le compagne in discoteca, ma poi le mettono in una brutta situazione: i fidanzati non ballano mai con le proprie fidanzate, ma non le lasciano nemmeno ballare con altri. Oltre il danno, certe volte c’è pure la beffa: tornati a casa, quegli stessi ragazzi rinfacciano alle compagne il fatto che siano andati a ballare insieme, si fa per dire, mentre è evidente che a queste condizioni, le ragazze preferirebbero semplicemente starsene a casa. Per voi invece è completamente diverso: vi fidate l’uno dell’altra, e se a te non piace ballare, lei non ti obbliga, ma nemmeno tu le impedisci… ”
“George. George! Fermati. Di cosa stai parlando?”, interrompe Enrico il mio discorso. “Io e Maria mica stiamo insieme”.
Mi blocco
“Ah no?”.
“No, siamo amici dalle medie”.
In quel momento, Maria mi prende per il polso e mi trascina a ballare.
“Salvami ti prego, c’è un tipo che mi ha leccata sul collo, che schifo”.
“Va bene, se proprio devo”. Lei mi guarda corrucciata, poi capisce che sono sarcastico e scoppiamo entrambi a ridere.
Ora vedo Maria in un’altra luce, o piuttosto mi permetto di guardarla nella luce in cui l’ho vista da quando ci siamo stretti la mano. E in questa luce soffusa e multicolore del locale, filtrata dalla lente dei drink bevuti fino a questo momento, Maria è ancora più affascinante del solito.
“Scusate ragazzi” ci interrompe Enrico. “Io rientro, per me si è fatto tardi”.
“Ma no, dai, resta, musone!”, lo prega Maria.
“Nah, le discoteche non fanno per me”, e sussurrando a me “e poi vado tranquillo perché la lascio in buone mani”.
“Ti accompagno. Torno subito”, aggiungo sorridendo a Maria.
“Vai tranquillo, mi assicuro che non si annoi” dice Leo avvicinandosi e facendole fare una piroetta.
Io e Enrico facciamo qualche passo fuori.
“Guarda, io… cioè, Maria voglio dire…”
“George. Parlavo sul serio. Non è il primo viaggio che faccio con lei, e non sarebbe la prima volta che io o lei incontriamo qualcuno in un locale. È l’estate amico mio: fatti meno problemi e vai a divertirti”.
“Sei sicuro?”.
“Sì. Io lo capisco a pelle quando uno è perbene, e so che con lei farai il bravo”.
“Fidati, con Maria faccio il bravo, il cattivo e qualsiasi altra cosa mi chieda”.
Ridiamo, ci abbracciamo e io rientro. Sulla pista però, di Maria non c’è traccia. Fisso tutte le ragazze del locale, però non riesco a incrociare i suoi occhi. Vado verso i bagni.
Scopro che ce n’è solo uno, ed è unisex. Lei non è in fila. Dopo qualche minuto la porta si apre ed esce fuori un ragazzo con una camicia a fiori. Impreco, e torno di nuovo in strada.
C’è della gente dell’ostello che sta fumando, ma non l’hanno vista. Nel vicoletto nessun’altro, solo il buio della notte, e un’aria immobile. Buio, sempre più buio, che mi toglie il respiro…
Tiro fuori la testa dall’acqua, tossendo fortissimo. Quattro ragazzi uzbeki si girano a guardarmi. Devono essere arrivati dopo di me. Indossano delle normali mutande e non hanno occhialini o qualcosa che renda la situazione differente da una scampagnata al fiume. Stanno facendo tuffi in questa piscina sporchissima.
All’inizio non ci ho fatto caso, però man mano che mi perdevo nei ricordi davo bracciate in automatico, fino ad avere un attacco di panico: l’acqua è talmente sporca e non filtrata che, man mano che la profondità della vasca aumenta, si vede sempre meno del fondo, fino a lasciare solo il buio.
Esco, ancora scosso, e vado a farmi una doccia gelata. Non che possa farmene una bollente anche volendo, s’intende.
Ritorno nell’atrio e chiedo del mio autista, e mi dicono che sta ancora correndo.
Dei signori in un angolo stanno giocando a scacchi, e mi invitano a fare una partita. Io accetto, spiegando che non sarei stato un grande avversario. Anche con questa premessa, quando l’armata del mio avversario riesce finalmente ad accerchiare il mio re, rimasto solo con un pedone a difenderlo, si sono già raccolte una mezza dozzina di persone intorno, come i bambini per strada interessate sicuramente più a me che alla partita.
Ricompare il padrone con un asciugamano intorno al collo.
“Io sono pronto a ripartire quando vuole”.
“Vado a fare un paio di vasche, mi faccio la doccia, e arrivo”.
Mentro lo aspetto, tanto vale farmi un giro nei campetti intorno al palazzetto. Quando arrivo in un vicolo cieco, costeggiato da due campi di pallacanestro totalmente invasi dalle erbacce, torno a sedermi al sicuro sui gradini d’ingresso, cercando di allontanare le immagini da film horror dalla mia testa. Dopo aver perso Maria, anche a Salonicco mi ero seduto sui gradini d’ingresso del locale, tenendomi la testa tra le mani.
Chiamo Maria, e mentre il telefono squilla mi ripeto che deve essere tutto nella mia testa: Leo è anche amico mio, non mi farebbe una cosa del genere.
Farmi poi cosa alla fine? Lei è single, lui è single, maggiorenni e vaccinati.
E poi amico, sì, insomma, ci conosciamo tutti da 24 ore.
Ha lo stesso diritto di me di passare del tempo con lei, non posso essere io il protagonista di tutte le storie a lieto fine.
I miei timori trovano purtroppo conferma: Maria non solo ignora la chiamata, ma riattacca. Capendo che stasera è andata così, saluto gli altri e ritorno mogio mogio all’ostello. Quando mancano pochi minuti al cancello però, mi squilla il telefono.
“George, dove sei? Scusa per prima, stavo prendendo un drink in un altro locale e a malapena sentivo la mia voce pronunciare “mojito”. Tutto bene con Enrico? Ma l’hai accompagnato fino a casa poi? Pensavo tornassi a ballare”.
“No no, cioè, sì sì, torno a ballare. È che volevo schiarirmi le idee, ho fatto una passeggiata… Tu e Leo adesso dove siete?”.
Seguendo le sue indicazioni, rifaccio tutta la strada indietro, pensando a quanto siano strane le ragazze: è ancora con Leo, ma vuole vedere anche me. Le piacerà magari ricevere tutta questa attenzione.
È passata mezz’ora da quando me ne sono andato, ma adesso devo farmi spazio tra la folla.
Mi ricordo del mio viaggio di maturità a Corfù qualche anno fa e trovo la spiegazione: i locali non erano deserti perché è giovedì, ma perché qui la festa inizia verso le due-tre di notte.
“Ce l’hai fatta!”, mi accoglie Maria con un sorriso che va da un orecchio all’altro. Non so se sia davvero felice di rivedermi quanto lo sono io, ma decido di credere che sia così.
Con lei a un tavolino di plastica davanti alla discoteca ci sono altri quattro ragazzi fra cui Leo, però nessuno sembra concentrato su di lei, stanno continuando i loro discorsi senza accorgersi nemmeno del mio arrivo.
Talmente indifferenti a lei, che non notano come si alza dal tavolo e mi segue dentro il locale. Talmente ignari, che scopriranno forse solo il giorno dopo che pochi secondi dopo aver iniziato a ballare, le sono così vicino da poterle contare ogni singola lentiggine…
George Gavrilita
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LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”
Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano