TRANSASIA – Cap. 7: Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54

A1.jpg

 

La quarta notte di fila passata a dormire in un aeroporto inizia a farsi sentire. Rispetto a quello di Baku, dove ho dormito le scorse tre volte, l’aeroporto di Tashkent è molto più scomodo, tanto da farmi svegliare un’ora prima del dovuto.
Sgranocchio le ultime merendine e la mela che ho con me, e m’impongo di non mollare all’ultimo centinaio di metri: oggi è il giorno in cui, dopo esserci separati ad Atene due settimane fa, incontrerò di nuovo i miei compagni di viaggio. 

Cerco il cambiavalute, e vedo qualcosa che non ho mai visto da nessun’altra parte. A Baku, per esempio, i soldi te li davano a braccio, senza ricevuta e facendo il conto davanti agli occhi su una calcolatrice coi tasti grandi e colorati come quelli che si usano al mercato. Qua, per cambiare 50$, due persone diverse, una etnicamente russa, una uzbeka, mi fanno riempire ciascuna due moduli con tutti i miei dati, e poi firmare e controfirmare.
Dopodiché staccano alcuni fogli da ciascun modulo e li ricombinano, li pinzano insieme, e tirano fuori dalla tasca ciascuna il timbro personale, uno rosso e uno blu, e lo appongono su tutte le pagine.
Infine, una si alza in piedi, e tira fuori una cassetta di sicurezza con due serrature; l’altra prende la sua chiave, e solo inserendo entrambe le chiavi nello stesso momento, riescono finalmente a darmi un centinaio di banconote di soldi del Monopoli.

 

Ringrazio, e allontanandomi mi chiedo se non alternino anche le coppie di lavoratori: magari vogliono proprio essere sicuri fino in fondo che ogni addetto faccia la spia se l’altro provasse mai disgraziatamente a intascarsi un tozzo di pane, e magari hanno previsto una turnazione per impedire che entrino in confidenza, e vogliano farlo insieme.
Mi blocco e scaccio via questi pensieri: mi rendo conto di quanto sia facile diventare paranoici in un clima di paranoia.

Ora che posso permettermelo, prendo un taxi verso la stazione dei treni: sulla strada, un palazzone sovietico mi dà il benvenuto a “Tashkent, città dell’amicizia e della pace”.

 

Per quel poco che so della capitale, e del paese in generale, faccio fatica a trovare una coppia di epiteti meno adatti. La città è un copia-incolla degli stessi palazzoni grigi e squadrati che ho visto in Georgia e Azerbaigian, stile architettonico che si ripete anche per l’anonima stazione: tolta qualche vetrata, rimane una scatola grandissima con all’interno il nulla.

Mentre faccio la fila per l’unico sportello della biglietteria vedo su dei monitor una trasmissione: è piena di percentuali su quanto i bambini facciano sport, quanto si investa nella ricerca e altre immagini di propaganda.
C’è anche un video della bandiera uzbeka alzata più in alto in una competizione sportiva, sopra a quelle dell’Iran e della Cina.
Tutti gli spot si concludono con una saggia citazione attribuita a Islam Karimov, il Presidente della Repubblica, apparentemente laureato in medicina, ingegneria, statistica, diritto… A un certo punto smetto di contare.

 

“Pozhaluysta”.

Riconosco le parole russe per “Prego”, nel senso che è arrivato il mio turno, e mi rendo conto che l’inglese non sarà un’opzione in questa trattativa.
Tiro fuori il mio fedele blocco note, e disegno un trenino, con in testa Samarcanda e in coda Tashkent.
Poi disegno un orologio e scrivo accanto l’orario di partenza.
La cassiera guarda la mia opera d’arte, digita qualcosa sulla tastiera e gira il monitor verso di me.
Pian piano decifro il cirillico di “Tash- qualcosa”, poi di “Sama-qualcos’altro”, e i numeri, beh, sono numeri.
Combacia tutto con quello che avevo letto in rete, tranne il prezzo, tre volte più caro. Faccio il segno internazionale dei soldi con la mano destra, e con la sinistra spingo il palmo verso il basso,

Non hai qualcosa di meno caro?”.

 

Fra gli sbuffi impazienti ma educati della gente in fila dietro di me, il prezzo scende varie volte, rifiutando io via via la prima classe, la business, l’economy comfort, fino a quando compare un prezzo simile a ciò che sapevo. Dopo aver pagato il taxi però, per un pelo non ho abbastanza dinari uzbeki per pagare il biglietto, al che faccio vedere alla cassiera la mia ultima banconota di 100$, in attesa che mi indichi dove cambiare.
Lei invece digita sullo schermo un cambio molto più favorevole di quello che mi avevano fatto in aeroporto, e mi dà biglietto del treno e una montagna di soldi come resto.

 

Per essere la classe più economica, il mio compartimento è molto più lussuoso di quanto mi aspettassi. C’è una TV LCD, anche se assicurata al muro con delle cinture, aria condizionata, interni di legno laccato e dei giornali gratis appoggiati sui sedili.
Le scritte che ho visto finora usavano principalmente la traslitterazione in alfabeto latino, mentre questi quotidiani sono tutti in cirillico.
Mi dico che la propaganda è per tutti, mentre i pochi che sanno e vogliono leggere giornali lo fanno nella lingua della cultura, il russo.


Entrano altri due signori nel mio compartimento. Il primo ha una pancia da birra coperta da una cannottiera, pantaloncini di stoffa e sandali con calzini a mezza gamba blu.
L’altro indossa un abito e ha una ventiquattrore. Condividono una calvizie incipiente e tante chiacchiere, che non mi danno fastidio, anzi, quasi mi cullano: mentre osservo fuori dalla finestra steppe sconfinate, riarse dal sole e lasciate senza protezione dalle nuvole assenti, pian piano mi addormento.

 

Mi svegliano: siamo arrivati a Samarcanda. Prima di uscire dalla stazione, compro anche il biglietto per Almaty, dato che l’ostello è molto lontano dalla stazione e, in generale, meglio fare quanto prima quello che già so di dover fare.
Esco per strada e mi aspetto di sentire come prima melodia tutto tranne la hit dubstep “Bangarang”, che esce da una vecchia radio su un tavolo dentro l’officina di un meccanico: poco male, il pezzo è molto in sintonia col mio umore.
Mi sento rinvigorito da una nuova energia.

 

M’incammino verso l’ostello e noto una quantità impressionante di cantieri lungo il bordo della strada. Normalmente dovrebbe essere una buona cosa quando si creano nuove abitazioni, vuol dire che c’è vitalità economica – o perché molti vogliono venire a vivere in città, o perché la popolazione è in crescita.
Ci sono anche molte donne con gonne coloratissime che spostano i mattoni a mano, un altro esempio di comunismo che, a modo suo, porta uguaglianza tra i sessi.

Un passante mi tocca la spalla.
Mi giro, e vedo un vecchietto che tocca con l’indice il proprio polso. Gli faccio vedere l’ora, e lui continua a spostare lo sguardo sorridendo fra me e il quadrante.
Gliela indico con le dita, chiedendomi quale alternativa sia meno triste: che non sappia leggere lo schermo digitale, o che abbia un problema alla vista a causa di un’infezione che in occidente si previene con un vaccino obbligatorio o con un farmaco da banco.

 

Dopo un’ora zaino in spalla e sole d’agosto sulla nuca, mi dico che è bello misurare così a piedi le città, però almeno a San Pietroburgo – qualche settimana prima, quando cercavo di rientrare a casa ubriaco – era di notte.
E non avevo nemmeno lo zaino in spalla.
Mentre mi chiedo cosa sia peggio, se il male alle spalle per il peso o il male allo stomaco per l’alcool, riesco a trovare l’entrata anonima del nostro – non mio, finalmente nostro! – ostello.

Seguo un lungo corridoio perpendicolare alla strada fino ad arrivare alla reception, che dà su un vasto cortile interno, ricco di vegetazione e tappeti appesi dai balconi.
Tutt’attorno al cortile circolare c’è una scala che fa accedere ai tre piani dell’edificio. Nel centro c’è una pompa d’acqua, un tavolo con della frutta sopra, e tre lettoni enormi a baldacchino, a mo’ di sofà e sala comune.
La calma viene interrotta ogni tanto dai versi degli uccellini, che vivono all’interno di una decina di gabbie appese a varie altezze sui rami degli alberi o fuori dai balconi.


“I tuoi amici sono usciti, non so quando tornano”. La notizia data dal gestore mi lascia perplesso.
Anche se in tutta onestà non mi spiace riposarmi un attimo, fa un po’ schifo arrivare fino alla dannata Samarcanda e restare seduto su una panchina a utilizzare il Wi-Fi, come faccio da una settimana, senza sapere che fine hanno fatto i miei amici.
Deve passare un’altra oretta prima che io senta rumore di passi.

“Hey, raga, è arrivato George!”. Mi alzo in piedi per abbracciare Roberto, che risponde con una sola mano, dato che nell’altra tiene un sacchetto di plastica bianco con del pan bauletto.

“Ciao”. Il saluto di Francesco è molto più apatico, ma non ci faccio caso e abbraccio pure lui.

“Oh, salut Georges”, si sente infine in francese la voce pacata, un po’ sorpresa di Davide, che chiude la fila portando una boccia d’acqua di cinque litri.

 

È la prima volta che lo vedo da mesi. Sono stati Davide ed un’altra ragazza a ideare il nostro folle viaggio, e poi a tirarmi in ballo. Mentre pianificavamo l’itinerario in tre, ci siamo resi conto che in quattro sarebbe stato più facile prendere due doppie in degli alberghi laddove non ci fossero ostelli, minimizzare i costi nel caso noleggiassimo un’auto per gite fuori porta, o eventualmente separarci e non lasciare nessuno da solo. Diciamo che quest’ultima parte è riuscita meno bene.

In ogni caso, verso marzo io avevo invitato Francesco come quarto e pensavamo di aver trovato la quadra, ma la ragazza ha rinunciato inaspettatamente perché ha trovato uno stage estivo. Sorge quindi spontanea la domanda: chi è più avventuroso, io che organizzo un viaggio del genere, o Roberto, amico d’infanzia di Francesco, che dà la disponibilità a giugno per partire a luglio e attraversare l’Asia? Se la formulazione vi ricorda un altro detto che inizia con “chi è più scemo…”, si tratta di pura coincidenza.


Ora però l’entusiasmo con cui si sono lanciati tutti in quest’avventura non è più presente sul volto di nessuno. Qualcuno dovrà pur dire qualcosa dopo che i sorrisi iniziali si sono spenti, e Francesco ha addirittura tirato fuori il cellulare e ha iniziato a controllare le notifiche.

“Allora, com’è andato il vostro viaggio?”, azzardo io.

Francesco alza lo sguardo verso di me, e lascia andare un lungo sospiro.

“Un disastro”, spiega Davide.

 

 

George Gavrilita

Segui Tagli su Facebook e Twitter  

LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”

Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano

Post Correlati