
“Posso vedere la sua carta d’imbarco?”.
La mostro insieme al passaporto alla hostess del volo Uzbekistan Airlines 756. Con tutte le volte che mi son dovuto inventare dei viaggi per poter dormire in aeroporto, sono abituato ormai ad imparare a memoria i numeri dei voli
Vicino a me non c’è nessuno, non solo nei due sedili a fianco, ma nemmeno davanti, dietro o dall’altra parte del corridoio. Quando la hostess ritorna con un bicchiere d’acqua, lo bevo a metà, e sfrutto l’occasione per svolgere un esperimento scientifico, lasciandolo semplicemente appoggiato sul posto accanto al mio.
L’aereo decolla. Per lavoro mi capita spesso di volare: di solito dopo aver preso posto mi metto la cintura, la mascherina, e mi addormento ancor prima che chiedano di spegnere i cellulari. Solitamente vengo svegliato dalle hostess all’atterraggio, scoprendo così di essermi perso tutto il viaggio. Questa volta però ci tengo a restare sveglio, per vedere almeno dal finestrino come può essere la traversata del Mar Caspio.
Sotto di me c’è solo blu a perdita d’occhio, calmissimo, quasi piatto. Come spesso capita in natura, questo bacino d’acqua se ne infischia delle semplicistiche categorizzazioni dell’uomo, che lo vorrebbero o lago, o mare.
Per dimensioni e salinità potrebbe essere un mare, però non ha né emissari né un modo per riversarsi in un oceano. Per la Russia e l’Iran si tratta di un lago, perché se così non fosse si applicherebbe il diritto internazionale del mare. Come lago invece, il diritto internazionale è molto meno specifico, e si possono trovare accordi tra gentiluomini. Caso vuole che i due paesi siano i gentiluomini più potenti fra i paesi bagnati dal Caspio.
La traversata doveva essere uno dei pezzi forti del nostro viaggio, tutti insieme e senza prendere voli, e invece mi ritrovo solo a 10.000 metri di quota, cercando di raggiungere i miei compagni.
Il paesaggio è cambiato, e dalla finestra vedo per la prima volta nella mia vita il deserto. Il cambiamento non avrebbe potuto essere più improvviso, passando dal blu sconfinato a una nuova immensità multicolore, con tante cicatrici sottili, un po’ più chiare – sentieri, probabilmente – e una grossa vena scoperta: un fiume, nerissimo visto dall’aereo.
Non ci sono dune, ma d’altronde non sempre i deserti sono fatti di sabbia.
Lì sotto da qualche parte c’è lo scomparso Mar d’Aral, forse l’unico posto al mondo dove si possono vedere navi e cammelli in compagnia.
“Aral” nelle lingue turciche vuol dire “arcipelago”, ed è un nome davvero ironico per quello che adesso viene conosciuto come il Deserto dell’Aralkum. Una volta era il quarto lago più esteso del mondo, con una superficie paragonabile alla Pianura Padana, ma è stato prosciugato da progetti di irrigazione sovietici: invece di migliorare la qualità della vita della regione, hanno distrutto industria della pesca, vegetazione, e aumentato l’inquinamento.
Laddove in un lago normale può transitare molta più acqua del necessario, e se ce n’è troppa scorre a valle, in un bacino senza emissari come quello del Mar d’Aral, del Mar Caspio o di altri laghi enormi prosciugati nel Sahara, c’è poco spazio di manovra: se si riduce improvvisamente il livello dell’acqua, ci vuole molto tempo perché si riempia, e questo solo se prima la massa d’acqua ridotta non si evapora completamente. La differenza col Sahara è che lì è stata colpa dell’ultima glaciazione, qui invece stiamo parlando di una delle più grandi tragedie ambientali direttamente provocate dall’uomo.
“Mi scusi, questi sono i fogli da compilare prima di passare l’immigrazione e la dogana”. Leggo quello che la hostess mi porge, e vedo che bisogna dichiarare tutti i tipi di contanti in possesso.
Di solito bisogna farlo solo se si hanno 10.000 euro in contanti o qualcosa di simile, ma ora mi trovo costretto a rovistare fra le monetine del viaggio della scorsa estate, e a segnare quantità ridicole di yuan cinesi e yen giapponesi, in aggiunta agli spiccioli di manat azeri e i pochi dollari che mi rimangono, usando alla fine quasi tutte le righe a disposizione.
“Signori passeggeri, il capitano vi parla. Tutto bene a destinazione, cielo sereno, temperatura a terra sui 39° centigradi, speriamo la sera porti un po’ di conforto. Tempo di arrivo previsto 7.30 ora locale”.
Come le 7.30? Abbiamo ritardato così tanto alla partenza? Giusto, c’è anche il cambio di fuso. Mi maledico per aver controllato solo l’orario di partenza e durata del volo.
Contavo di prendere l’ultimo treno per Samarcanda alle 8.30, però fra burocrazia e trovare un modo per arrivare in stazione mi sa che ho perso il pelo, ma non il vizio: anche questa notte la dovrò passare in aeroporto, stavolta a Tashkent.
L’atterraggio del pilota è da manuale, e alzandomi mi ricordo del bicchiere che ho posato sulla sedia accanto a me. Decollo e discesa, ma non si è versata una goccia.
Scendiamo sulla pista dell’aeroporto di Tashkent alle 7.50 e ci viene indicato di camminare in direzione di un terminal assai lontano. Non pretendo sempre di avere un corridoio telescopico, ma almeno una navetta…
Come consolazione la piattezza dell’aeroporto permette di osservare un sole grandissimo, molto vicino all’orizzonte, che fa risplendere tutto durante l’ora d’oro. Appena scatto un paio di foto però, spunta dal nulla un soldato che mi chiede immediatamente di cancellarle.
Partiamo bene.
Entriamo dentro l’edificio, dove un mare di gente con bagagli di tutti i colori e tutte le forme, soprattutto borse da palestra e grandi sacchi di juta, sta lentamente avanzando verso l’unica porta metal detector.
Finito questo passaggio, mi controllano il visto, ma non mi chiedono perché un cittadino rumeno residente in Italia l’abbia ottenuto ad Atene. Stesso atteggiamento anche alla dogana, l’addetto non ha nemmeno guardato il foglio su cui ho segnato tutte le varie monetine che ho addosso.
Bene, almeno la parte burocratica è finita, posso trovare qualcosa da mangiare nella zona degli arrivi e cercare un angolo dove passare la notte.
Seguo l’unico corridoio possibile dopo la dogana, e mi ritrovo in un parcheggio deserto. Non un’anima. Solo polvere.
Mi guardo indietro, e mentre lo faccio la porta scorrevole si chiude davanti a me. Mi avvicino, alzo la mano, ma non serve a niente, non c’è nessun sensore per il movimento dal lato esterno.
Ci metto un po’ a realizzare che forse è meglio così, capace che mi puntano un fucile addosso se rientro da una porta che deve servire solo da uscita. Il problema è che io all’aeroporto ci devo rimanere, se non c’erano ostelli a Baku, figurati se ce ne sono qua in giro. “Ora mi partono sicuri altri 30 dollari”, impreco nella mia testa. Trenta dollari che, peraltro, mi ricordo improvvisamente di non avere, con la mia carta di debito sottozero, e dovendo pagare comunque un taxi per arrivare in città, senza un centesimo della valuta locale.
Una favola, proprio.
Mi concentro per un po’ sul mio respiro, guardando la distesa di cemento illuminata da pochi lampioni e da molte stelle. Almeno i Paesi in via di sviluppo hanno questo vantaggio, non c’è inquinamento luminoso. Un centinaio di metri più in là noto una lucina intermittente, le porte d’ingresso che si aprono e si chiudono. Ancora una volta la scena è destinata a ripetersi.
“Buona sera signore, biglietto e passaporto per favore”, mi chiede in inglese la guardia mentre appoggio lo zaino sulla banda. Glieli do, e faccio per attraversare il metal detector.
“Scusi, questo è un biglietto in arrivo, non in partenza”.
“Infatti, sono appena arrivato, ma sono uscito per sbaglio”.
Silenzio. Vedo sul suo viso formarsi la domanda, “In che senso uscito ‘per sbaglio’?”.
“Non posso lasciarla entrare senza biglietto”.
“Non capisce, io… io…”. Maledizione, questa volta non mi sono studiato le battute prima di parlare con le guardie e non ho la risposta pronta.
“I taxi li trova lì”.
“Ma io non voglio prendere il taxi!”.
“Vuole che le chiami una limousine?”.
Sto per rispondere male, ma mi rendo conto che il tono era sinceramente servizievole. Ora, è vero che tu non puoi conoscere la mia situazione bancaria, però almeno guardami! Sono in pantaloncini corti e infradito, ti pare?
“Non ha capito, non ho soldi per pagare! Mi ascolta? Mi faccia per favore entrare nell’aeroporto almeno per cambiare i soldi!”.
E faccio vedere i pochi dollari cash avanzati dall’Azerbaigian. La guardia è inamovibile, e devo ripetere questo teatrino a due altri ingressi prima di impietosire una guardia che capisca che lasciare dollari in contanti all’interno del Paese è una cosa che il suo governo vuole.
Bene, ora sono di nuovo dentro l’aeroporto, non nella zona partenze, ma nella zona arrivi dei voli nazionali. Qui non ci sono controlli del passaporto per i passeggeri in arrivo né dogane, e c’è un po’ di spazio per muoversi, non un solo corridoio da seguire verso l’uscita.
Si sono fatte quasi le nove, e intorno a me non c’è nessuno.
Ci sono delle scale che portano al piano di sopra, che ricorda un balcone che dà sull’atrio principale.
Entro dentro un ristorante molto spartano, che mi ricorda la panetteria in cui andavo a fare la spesa da giovane in Romania. Tutto costruito in compensato di betulla, un banco frigo in cui invece di uova e latte (come nei miei ricordi) ci sono panini imbottiti e bevande gasate.
In tutto, forse, una ventina di articoli.
Prendo un panino che si rivela meno cattivo di quanto pensassi, e mentre mastico lentamente ragiono sul da farsi. Negli anni del liceo ho fatto abbondante esperienza dormendo sui banchi, quindi una serata passata a dormire qua in un angolo, se solo me lo permettessero, non sarebbe certo la fine del mondo.
In quel momento sento qualcuno chiedere un caffè dall’altra parte del locale, e vedo una porta come quelle delle cucine dei ristoranti che ancora oscilla.
Mi viene in mente un’idea.
Cambio posto per sistemarmi davanti alle vetrate, e dando l’impressione di guardare fuori, cerco di spiare la parete e la porta alle mie spalle attraverso il riflesso.
Non ci posso credere. Dopo un po’ di tempo la signora prende il suo caffè, ed esce dalla stessa porta da cui è entrata: l’aeroporto è talmente povero e piccolo che c’è un solo ristorante, che comunica sia con gli arrivi sia con le partenze.
È vero, magari non si è mai posto il problema di qualcuno in partenza che voglia visitare l’atrio degli arrivi e viceversa; ma in tutta la loro ossessione per la sicurezza – la stessa per cui mi viene vietato persino di fare foto – questo mi sembra uno scivolone non indifferente.
Osservo da sopra per un’altra mezz’ora i movimenti dei controllori e dei passeggeri, fin quando vedo finalmente una nonnina tirare fuori dai borsoni un cuscino e distendersi su una panchina. Ecco, un precedente! È tutto quello che mi serve.
Pago, scendo le scale, tiro dritto fino a uno dei tavolini su cui erano disposti i foglietti per l’uscita dal Paese.
Ne compilo uno con calma anche se non mi serve, solo per comportarmi come qualcuno davvero in partenza. Vado poi verso il gruppo di panchine più affollate, e mi addormento seduto, col mio zaino posato sulle ginocchia e la testa appoggiata sullo zaino.
Anche oggi mi rimpatriano domani.
George Gavrilita
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LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”
Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano