TRANSASIA – Cap. 3: Visti per l’Uzbekistan e rovine greche

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“Fra, io allora vado all’ambasciata, e dopo pranzo andiamo insieme sull’Acropoli”.

“Va bene, in mattinata allora noi andiamo all’Archeologico”.

“Non possiamo andarci assieme un altro giorno?”.

“Dai, ti raccontiamo quando torni, magari non ne vale nemmeno la pena”.

Siamo ad Atene. Esco dall’ostello prenotato da me, Francesco e dal terzo membro della compagnia, appena unitosi a noi, Roberto, e ho un po’ l’amaro in bocca. Mezza giornata a loro non cambia nulla.
D’altro canto, non è nemmeno colpa loro se il viaggio è iniziato ma io non ho ancora un visto uzbeko.

 

L’AMBASCIATA UZBEKA IN GRECIA

Citofono. Mi fanno entrare in una grande stanza con diverse scrivanie nei vari angoli, ma solo due impiegati – che non sembrano star facendo nulla di particolare. Il clima è molto rilassato. Mi chiedo se fossero così rilassati anche a casa loro in Uzbekistan, oppure se si siano conformati alle usanze greche.

È la terza volta che faccio domanda per questo visto. A Parigi e a Roma le agenzie di viaggi mi hanno assicurato che la lettera d’invito non servisse; eppure in entrambi i casi le ambasciate non hanno accettato la pratica perché incompleta.

Oggi invece ho tutto, e ogni nuova pratica di visto che faccio per un nuovo Paese mi convince che spesso i funzionari non hanno libertà di decisione, ma controllano solo che tutti i documenti in una lista ci siano. Se però i documenti ci sono tutti, non stanno nemmeno a fare tanto gli schizzinosi.

 

“Ecco, firmi qui e qui. Bene, ora deve solo stampare il codice di conferma che le abbiamo inviato in questo momento al suo indirizzo email, e andare a questa banca a pagare la tassa. Poi ritorna, e le incolliamo il visto sul passaporto”. Sono le dieci e mezza.

“Forse mi ricordo male… voi non lavorate fino all’una?”.
“Sì”.
“E oggi è venerdì, quindi riaprite poi solo lunedì?”.
“Normalmente sì, ma questo lunedì è festa in Uzbekistan, quindi riapriamo solo mercoledì”.
Mercoledì non so nemmeno se sarò ancora in Grecia.

Mi sorride.

Gli sorrido.

Mi alzo in piedi e scatto verso l’uscita.

 

George con una statua al museum

Mentre corro in direzione della banca mi rivolgo a passanti a caso, chiedendo se conoscono un internet café lì vicino per stampare il codice. Mi rendo conto al secondo sguardo sgranato che il problema non è l’inglese, la gente capisce benissimo cosa cerco: è che se sei un locale è proprio una cosa di cui non hai mai bisogno, l’internet ce l’hai a casa e/o sul cellulare. È come chiedere l’indirizzo degli Alcolisti Anonimi a un convegno di astemi.
Intanto arrivo in banca, e ovviamente sembra il sabato del mercato. Parlo con un funzionario, spiego il mio problema mentre tiro fiato, e facendomi l’occhiolino, come per dire “ho capito quanto sia speciale e urgente la tua situazione”, il funzionario mi stampa il numero A182.
Mi siedo accanto a una persona, e noto che tiene in mano la A160. Mi rialzo. 
Non sono uno da saltare la fila, ma qui bisogna dare una mano alla fortuna. Parlo col capo, poi con la capa del capo, e mi fanno salire al quarto piano.
Scendo di nuovo al piano terra per ritirare euro dal loro bancomat, perché anche se il costo del visto è in dollari, e io ho dollari cash con me, la banca accetta solo pagamenti in euro.

Attesa. Numeri chiamati lentissimamente. Cerco il wi-fi della filiale: lo trovo, mi collego e mi metto a cercare “internet café Athens” con l’ansia che cresce. Pago. Riprendo a correre a perdifiato con la ricevuta della transazione in mano, dovendo saltare il muretto nel mezzo del corso per inseguire il pullman che Google Maps mi ha consigliato di prendere.
Perdo per strada il cappellino e il thermos attaccati ai jeans con un moschettone: l’unica consolazione è che, dopo un secondo, sono stati loro – e non io – a essere travolti da un’auto.

Il pullman è fermo con le porte aperte al semaforo, salgo senza biglietto e prendo fiato. Due fermate e nessun controllore più tardi scendo davanti al café, a differenza della banca completamente deserto. Forse perché un turista normale parte già coi visti fatti.

“Quanto costa un’ora?”.

“Guardi c’è un contatore sullo schermo, si paga quanto si consuma”. Il cassiere mi guarda male quando torno dopo tre minuti.

“Posso pagare con carta?”.

A un quarto d’ora dalla chiusura sono di nuovo seduto davanti all’impiegato dell’ambasciata, in un lago di sudore. In momenti come questi ti rendi conto quanto siamo abituati a esagerare con i condizionatori, e come la mia puzza si stia probabilmente diffondendo per tutto l’ambiente.
Il console stampa un adesivo e lo incolla davanti ai miei occhi. Con grande cura, mette un timbro a metà fra il visto e la pagina del mio passaporto, e poi firma con una bellissima calligrafia, a metà tra il timbro e il visto.

 

Visto uzbeko

L’ATENE DI UNA VOLTA, L’ATENE DI ADESSO
“Il tuo visto è diverso dal nostro – dice Francesco guardando il mio passaporto – sui nostri non c’è scritto ”.
“Fanno bene – scherza Roberto – devono tutelarsi da questi rumeni che vengono in Uzbekistan a rubargli il lavoro!”.
Ridiamo tutti e tre pranzando vicino all’ostello trangugiando gyros, una specie di kebap. Oggi l’abbiamo preso al pollo, ma rimane comunque la quarta volta che mangiamo qui in tre giorni, dato che siamo già fuori budget: avevamo messo in conto 15 euro al giorno per alloggio e due pasti caldi, quanta innocenza.

Queste cifre avrebbero magari senso in Asia, ma Atene rimane pur sempre una capitale europea. A differenza delle sue sorelle, tuttavia, si percepisce ovunque che la città è cara senza essere ricca, colpita com’è dalla recente crisi finanziaria.
Ricordo che la parte brutta di Varsavia mi era piaciuta più dell’Atene che ho davanti agli occhi… e Varsavia l’hanno anche bombardata parecchio.

Per le strade ci sono tantissimi negozi di moda abbandonati – tutti tranne quelli di lusso, perché si sa, la crisi non è mica per tutti, esaspera solo le differenze.
Vorremmo documentare fedelmente la situazione, ma un qualcosa dentro di noi suggerisce che no, non è il caso di fare le foto ai tanti senzatetto. Solo più tardi, riguardando gli scatti in albergo, ci rendiamo conto che in certi panorami non c’è modo di evitarli, anche senza farlo apposta.

 

Il Partenone dal basso impressiona, ma arrivati vicino vediamo gli effetti dei tagli alla cultura: del resto, è una delle prime voci di bilancio a essere penalizzata in caso di debito. La messa in sicurezza è al limite del minimo indispensabile, i cartelli in inglese sono pochi e incompleti.

Usciti dall’Acropoli ci dirigiamo fuori dal centro: vediamo la periferia della città, dove abitazioni di fortuna sembrano far presagire future favelas.

 

Anfiteatro a Delfi

L’OMBELICO DEL MONDO
Ma oltre all’Acropoli, tenuta comunque meno bene dei templi di Agrigento, non ci sono abbastanza cose da fare per i quattro giorni che avevamo previsto ad Atene: decidiamo di fare una gita di un giorno a Delfi. 
La sede dell’oracolo vince facilmente il confronto con la capitale. Nel complesso ci sono un tempio circolare, silenzioso e maestoso, un circo per le corse lungo quasi quanto il Massimo a Roma, e un anfiteatro deserto e solenne. Nella brezza fresca e piacevole Roberto inizia a parlare come una macchinetta, spiegandomi vita, morte e miracoli di ogni edificio del complesso.

“Compa’, tu come le sai ‘ste cose?”.

“Ma Fra, se abbiamo fatto il classico insieme!”.

 

A conclusione della giornata prendiamo un drink con un’amica del posto che ci porta in un locale specializzato in cocktail molecolari, bevande gassose, shot gelatinosi, intrugli raffreddati nell’azoto liquido.
Ironia di come ragioniamo e delle priorità sfalsate che abbiamo, facciamo la foto ai cocktail, ma ci dimentichiamo di farcene scattare una tutti insieme.

 

“Che storie questa ragazza. Hai sentito quando ha detto che le chiedevano il certificato di battesimo per potersi iscrivere a scuola? Pazzesco. Tu come fai a conoscerla?”, mi chiede Roberto mentre torniamo in ostello.

“Lei? Grazie all’università”.

“Il campus tuo e di Francesco non è specializzato sull’Asia? Cosa c’entra la Grecia?”.

“L’università ha anche altri campus, quello africano, quello americano e via dicendo. Lei l’ho conosciuta durante le universiadi che facciamo ogni anno fra i vari campus. Questa cosa ti permette di creare un buon network. Altra gente che incontreremo per strada la conosco invece per via dei tornei di giochi di strategia”.

“È per quello che vai alla conferenza, no?”.

“Sì, è per quello”.

 

Il cellulare di Francesco si mette a squillare. “Scusate ragazzi. Pronto, papà?”. Rimane un po’ indietro.

“Spiegami ‘sta storia che non l’ho ancora capita bene”, riprende Roberto. “Quando io e Francesco partiamo per Istanbul, e raggiungiamo Davide, tu non vieni con noi, giusto?”.

“No. Mentre ero a Mosca mi hanno invitato a presentare un seminario a Salonicco questa domenica. Appena l’ho saputo, vi ho chiamati per chiedervi di rimanere in Grecia più a lungo, essendo pochi giorni in più e quasi per strada rispetto all’itinerario originale”.
“Eh, infatti, ti avevo detto che per me andava bene”.

“Anche a Davide andava bene, ma nel frattempo anche Francesco aveva preso contatti con un amico ad Ankara. Ci ha spiegato che non solo non voleva rimanere di più in Grecia, ma stava per proporci lui di partire prima per la Turchia e visitare anche Ankara”.

“Quindi cosa avete deciso?”.
“Un po’ come per la visita all’archeologico: nessuno dei due voleva rinunciare ai propri piani, quindi abbiamo deciso che ognuno fa le sue cose, e poi ci reincontriamo a Baku”.

 

“Scusate compa’”, ritorna Francesco, visibilmente scosso.

“Oi, che è successo?”, chiede Roberto.

“Mi ha chiamato mio padre. Avete sentito del volo Malaysia Airlines?”.

“Quello sparito nell’Oceano Indiano?”.

“No, quello che hanno abbattuto ieri in Ucraina”.

“Ah sì. Pare che sopra ci fossero decine di luminari sull’AIDS, diretti a un convegno in Australia. Dicono che la loro scomparsa rallenti i progressi nella ricerca di dieci anni”.

“C’era anche il mio vicino di casa”.

Scende un silenzio tesissimo tra noi. Il mondo non è tutto rose e fiori come ce lo immaginavamo sulle spiagge di Palermo. Il mondo che stiamo per visitare, poi, ancora meno.

 

Mappa Atene e Delfi

 

George Gavrilita

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LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”

Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano

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