TRANSASIA – Cap. 9: Nuovi incontri tra le guglie di Meteora

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“E tu, cos’hai fatto in queste ultime settimane?”.

La domanda di Davide risuona nella mia testa, e accentua l’amara ironia. In queste ultime settimane a spasso tra i Balcani ho vissuto col pensiero fisso di raggiungere lui, Francesco, e Roberto, i compagni con cui sono partito da Palermo per la Cina. Ora però non me la sento di raccontar loro quello che mi è successo. Come potrei, quando loro invece hanno passato giorni e giorni ad attraversare mari tempestosi e terre desolate, senza nulla da vedere?

Il proprietario dell’ostello in cui ci siamo finalmente ritrovati a Samarcanda mi toglie l’imbarazzo della risposta.

“Ragazzi, sto andando al centro sportivo. C’è una piscina, dei campetti, volete venire?”.

Io accetto subito d’istinto, un po’ per lavarmi di dosso la fatica, un po’ perché quando mi ricapita di andare in un centro sportivo in Uzbekistan? I miei compagni però non condividono il mio stato d’animo. Non so se è questa idea in particolare che non li convince, oppure se non hanno le energie per far nulla.

“Raccontaci quando torni compa’”.

Come ad Atene, le parole di Francesco sottolineano la nostra mancanza di sintonia, e mi fanno sentire più lontano da loro adesso più di prima, quando non erano pochi metri ma infiniti deserti a separarci.

 

Vado a posare per la prima volta lo zaino nella nostra stanza, e mentre tiro fuori l’ultima maglietta pulita rimasta e il costume da bagno, ripenso all’ultima volta che ci siamo visti.

Non mi ricordo cosa ci siamo detti la mattina della loro partenza per Istanbul. Non era mica un addio: ci saremmo rivisti presto, sia io sia loro avevamo tutti per la testa la prossima destinazione. Invece sono passate settimane.

 

Quel giorno ad Atene son rimasto quasi tutta la giornata in ostello, a usare il Wi-Fi e a preparare le prossime tappe. In Grecia avevamo speso il doppio di quanto avevamo preventivato, però aveva senso sperare che i prezzi si sarebbero abbassati nei paesi fuori dalla zona euro.

 

moussaka

 

All’ora di cena mi fermo davanti ad un ristorantino isolato e silenzioso sulla strada per la stazione. C’è un cartello che pubblicizza qualcosa: chiedo quando costa un assaggio, ma i camerieri mi sorridono, e invece di darmi un boccone mi sorprendono con un bicchierino di vino dolce. Sono brava gente, e il localetto con tavolini di legno illuminati da candele è circondato da un giardinetto con uva rampicante: se c’è un posto che merita i miei soldi, dove mi posso trattare bene prima dell’ignoto, è questo. La moussakà – uno sformato di patate, melanzane e carne tritata, ricoperto di formaggio fuso, è un cambiamento piacevole dopo giorni che andavo avanti a gyros (una specie di kebap). Mi godo tanto la cenetta che riesco persino a ignorare la tavolata più rumorosa del locale, degli italiani che usano argomentazioni pressapochiste per lamentarsi a gran voce dell’invasione dei rom.

 

Vero è che di rom ce ne sono tanti sul binario della stazione di Atene dove aspetto il treno per Istanbul. E con loro, greci, turchi, e un sacco di altra gente di cui non so indovinare le origini a occhio. Molti hanno valigie grossissime, ma ancora di più sono quelli con sacchi enormi di juta. Le porte dei vagoni si aprono e la gente inizia a salire per prendere i posti migliori. Quando le porte si chiudono e ci mettiamo finalmente in marcia, è già l’una di notte. Fra me e me penso che Palermo e Atene finora sono state un lusso, il vero viaggio inizia ora.

 

Passo il primo quarto d’ora a camminare da un vagone all’altro, cercando un posto a sedere. Spesso faccio fatica persino a trovare uno spazio dove mettere i piedi, in mezzo a tutti i soldati di ritorno dalla libera uscita accasciati per terra sopra i loro borsoni. Miracolosamente trovo un sedile vuoto dove posso sedermi e ascoltare della musica: non mi fido a chiudere occhio, perché ho un cambio nel mezzo della notte a una stazione secondaria. Scandisco il passaggio del tempo con il susseguirsi delle tracce e con l’andirivieni dei ragazzi che portano delle borse frigo con bottigliette d’acqua e termos di caffè.

 

Annunciano una fermata più lunga. Voglio prendere qualcosa da mangiare, ma l’unica bancarella aperta a quest’ora vende solo patatine e popcorn. Risalgo appena in tempo sul treno, senza aver acquistato nulla, tanto un altro venditore ambulante con del vero cibo passerà – mi dico. Quando si fanno le tre di notte, il treno si svuota e non passano più nemmeno quelli con caffè, imparo una lezione importante: fare lo schizzinoso in queste condizioni è un errore da principianti.

 

Scendo alla stazione dove devo cambiare, e salito sul secondo treno mi concedo tre ore di sonno, tanto stavolta devo scendere al capolinea. Tre ore per modo di dire, perché quando non mi svegliano le mosche o i crampi dovuti alla fame, ci pensano dei passeggeri che urlano in continuazione.

Qualcuno mi tocca una spalla.

“Eh? Che c’è?”.

Mi guardo intorno, sono seduto sulla panchina di una fermata dei pullman e non so come sono arrivato qua.
“Meteora?”, mi chiede il signore. Faccio mente locale.

“Meteora”, rispondo e salgo sul pullman che deve portarmi alla mia destinazione finale.

 

carrucola

 

Dopo una quindicina di minuti, da dietro una curva, compaiono le guglie.
Il complesso di Meteora è fatto da una serie di monasteri in cima a delle formazioni naturali di pietra, altissimi cilindri dalla parete incredibilmente liscia. Ancora oggi ci si chiede come siano riusciti dei monaci in tempi medioevali a portare su i materiali da costruzione necessari per erigere questi edifici. Da qualche decennio delle strade e degli scalini intagliati nelle rocce rendono più facile l’accesso, ma i primi ad arrivarci, durante i secoli bui, come hanno fatto?

 

Alle otto di mattina sto già salendo rampe di scale con in mano il mio biglietto d’ingresso. I monasteri aprono solo alle nove, però il panorama è mozzafiato. Mi rendo conto di essere fortunato a goderne nelle prime ore del mattino, quando i turisti sono ancora pochi, e soprattutto quando il sole non è così impietoso: in cima al mondo c’è poca ombra. Sarà per la stanchezza, sarà perché sono cresciuto in un paese ortodosso, ma quando hanno finalmente aperto le porte, l’interno dei monasteri di per sé non mi ha impressionato. Probabilmente non è quello il loro scopo: chi prega qui cerca l’illuminazione interiore, che si raggiunge meglio in assenza di troppi stimoli visivi. Una volta in pace con se stessi, anche l’immensità del panorama acquista nuovo valore e significato.

 

Chiedo se posso usare il grosso cesto attaccato ad una carrucola per scendere, come facevano i monaci prima che ci fossero le scale. Mi viene risposto di no, e con questa piccola delusione, mi rendo conto che alle dieci e un quarto ho visto tutto quello che volevo vedere non solo oggi, ma anche per i prossimi tre giorni, fino alla conferenza a cui devo partecipare a Katerini. In Grecia non ti puoi mai annoiare solo se ti trovi tra le migliaia di isole dell’Egeo, o nel Peloponneso: andando da Atene verso nord, non mi rimane molto da vedere.

 

Grazie al cielo siamo nel terzo millennio, a alla base delle guglie c’è un centro turistico dotato di Wi-Fi. Prenoto un letto in un ostello in una località vicina, Trikala, m’informo sui mezzi per raggiungerla, e prima di pranzo ho già fatto il check-in. Nella mia camerata da sei non c’è nessuno. Mi stendo per riposarmi un attimo prima di mangiare, ma ovviamente mi addormento istantaneamente.

 

ostello con veranda


Mi svegliano delle risate dai tavolini sulla veranda dell’ostello. Mi tiro su e guardo il cellulare: sono già le cinque del pomeriggio. Un ragazzo apre la porta della stanza.

“Ti sei svegliato allora. Io sono Leo, piacere! Vuoi unirti a noi? Stiamo mangiando dell’anguria”. I brontolii del mio stomaco rispondono prima che il mio cervello possa decodificare il messaggio.

Fuori c’è una coppia, entrambi biondi, lui sporco fino ai gomiti, intento a macellare l’anguria, lei morta dalle risate. Quando mi vede si asciuga le lacrime e mi invita a unirmi a loro.

“Ciao! Sono Maria”, dice porgendomi la mano.

“Io sono Enrico, spero non ti offendi se non ti stringo la mano”.

“No no, tranquillo”, rispondo io un po’ imbarazzato.

“Sei arrivato oggi?”, chiede Maria.

“Sì, ho visto Meteora al mattino”.

“Anche noi ieri. Domani volevamo andare a Salonicco, vero Enrico? Abbiamo incontrato Leo oggi, e ha deciso di unirsi a noi”.

 

“Ah, anche tu fai lo stesso itinerario?”, chiedo io a Leo.

“Non si può dire che io abbia un itinerario. Ho messo un po’ di soldi da parte e sto facendo un giro del mondo. Il mio “itinerario” consiste in una serie di paesi che voglio vedere nei sei mesi che mi rimangono: dove vado esattamente o in che ordine, lo decido giorno per giorno”.

“Forte! Di dove sei?”.

“La mia famiglia al momento vive al largo di Boston su una nave. Poi con l’arrivo dell’inverno dovranno scendere fino alla Florida. Sai, per l’assicurazione devi restare entro certe latitudini, altrimenti le condizioni di vento e mare mosso non sono coperte dalla polizza”.

“Non sapevo esistessero cose del genere. Quindi anche tu vivevi con loro?”.

“Non viviamo da un po’ insieme, però la passione per le navi me l’hanno attaccata loro. Ho creato il mio gruzzoletto lavorando sulle navi da crociera. Tu invece?”.

 

“Io sono diretto in Cina. Piano piano…”, sorrido.

“Fai la Via della Seta?”, chiede Enrico, scuoiando una fetta d’anguria e porgendola a Maria.

“Sì, l’idea è quella”.

“Ma vai da solo? Fino in Cina?”, interviene Maria.

“No no, siamo in quattro, in Azerbaigian si uniscono a me altri tre ragazzi”.

“Che figata! Noi invece stiamo facendo l’interrail nell’Europa dell’est: dopo Salonicco ci rimangono solo più la Bulgaria e la Turchia, poi rientriamo”.

Compariamo le nostre agende e ci rendiamo conto che durante la prossima settimana saremo tutti e quattro più o meno negli stessi giorni negli stessi paesi. È così che dopo nemmeno ventiquattr’ore, mi ritrovo dei nuovi compagni di viaggio.

“Prima di Salonicco nessuno vuole andare sul Monte Olimpo?”.

“Ci sono appena stato”, confida Leo, “ma non mi è sembrato nulla di che. È una passeggiata nella natura, d’accordo, ma non ci andrei apposta ecco”.

“Va bene. Speriamo che al vostro ostello a Salonicco abbiano un letto in più anche per me”.

 

“Allora, ragazzo sei pronto per partire?”.

Le parole del padrone dell’ostello a Samarcanda interrompono il filo dei miei pensieri, però adesso come a Meteora, la risposta è sempre la stessa: per partire sono pronto sempre.

 

mappa atene meteora olimpo salonicco

 

George Gavrilita

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LEGGI QUI TUTTE LE PUNTATE DI “TRANSASIA”

Prologo: Chiacchiere in Georgia
Cap I – Verso la Cina, con mezzi di fortuna
Cap II – Fuga dall’aeroporto di Baku
Cap III – Visti per l’Uzbekistan e rovine greche
Cap IV – Bloccato a Baku, senza soldi né amici
Cap V – Turismo di sopravvivenza in Azerbaigian
Cap VI – Uzbekistan, mari prosciugati e paranoia collettiva
Cap VII – Sul treno Tashkent-Samarcanda delle 8.54
Cap VIII – La gloriosa traversata del Caspio
Cap IX – Nuovi incontri tra le guglie di Meteora
Cap X – La movida di Salonicco
Cap XI – La Pepsi di Tamerlano
Cap XII – Balcani low-cost, più di quanto già lo siano

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