Pubblichiamo un contributo di Gianni Burzi, italiano con cittadinanza svizzera che vive a Zurigo. Ci ha raccontato come sta vivendo la Svizzera l’emergenza Coronavirus ma anche come la stanno vivendo gli italiani emigrati in terra elvetica. Buona lettura
Agli inizi di febbraio andai a una conferenza del Chief Investment Officer di Credit Suisse. Dopo un inizio abbastanza convenzionale, la persona che decide dove investire i soldi della seconda maggiore banca svizzera (un danese estremamente brillante, e giovane in maniera irritante) ci disse che veniva direttamente da una conference call con gli esperti di epidemiologia dell’ETH, il prestigioso politecnico zurighese. “Il virus è già qui”, ci disse. “Questo cambia tutto. Volete sapere dove investire i vostri risparmi? L’unico investimento sicuro è una bella casa a Berlino-Kreuzberg. È quello che ho fatto io”.
L’economia svizzera si è preparata ed ha reagito alla minaccia della pandemia con molto anticipo rispetto alle istituzioni. Le grandi banche, con tutto il settore terziario (che è sviluppato ma non dominante, come vorrebbe la percezione comune: la Svizzera è principalmente un’economia manifatturiera) hanno predisposto ovunque possibile le misure di distanziamento in ufficio, centrali di disinfezione, nuove norme per le mense comuni, quarantena obbligatoria per i dipendenti che tornassero da zone a rischio (incluso il nord Italia), divieto di riunioni e di incontri. Tutti quelli che ne hanno la possibilità tecnica lavorano da casa già dalla fine di febbraio, e ci si aspetta, indipendentemente dalle decisioni del governo, che continuerà cosi almeno fino a fine maggio, probabilmente oltre.
I governi cantonali, che hanno una autonomia molto maggiore di quella delle nostre regioni, hanno adottato subito misure restrittive, in particolare nelle zone più colpite (quelle confinanti con l’Italia, ossia Ticino e Grigioni). Il governo federale ha comunicato le prime misure la seconda settimana di marzo. Nella sfortunata conferenza stampa iniziale, la Presidente di turno della Confederazione, la socialista Simonetta Sommaruga, non spese nemmeno una parola di solidarietà o di vicinanza all’Italia, un paese confinante e amico, e di cui seicentomila cittadini, quasi il dieci per cento della popolazione svizzera, vivono all’interno dei confini federali. Anzi, la consigliera federale Keller-Sutter, equivalente al nostro ministro di giustizia, spiegò che la chiusura della frontiera a sud si giustificava con la necessità di evitare che ci fossero italiani “che venissero a curarsi in Svizzera”, rammaricandosi cinicamente di non poter discriminare i settantamila lavoratori frontalieri (che ogni giorno passano il confine da Lombardia e Piemonte) per fare entrare solo i lavoratori della sanità, essenziali per il funzionamento degli ospedali in Ticino. Uno dei punti più bassi delle relazioni tra i due paesi, al quale non mi risulta i nostri rappresentanti diplomatici o consolari abbiano nemmeno opposto un sopracciglio alzato.
Con un debito pubblico basso, riserve in oro enormi, e una banca nazionale che ha fatto lo scorso anno un utile di quarantanove miliardi di franchi (quarantasei miliardi di euro al cambio attuale), il supporto all’economia è potuto essere subito proporzionato allo shock subito. Le previsioni ritengono che ci saranno settori dell’economia svizzera che potranno addirittura trarre profitto dalla crisi, in particolare le grandi industrie farmaceutiche. Il settore finanziario avrà un ritardo recuperabile, ma ci saranno altri settori, in particolare viaggi, turismo e manifattura di macchine automatiche, che avranno perdite dolorose. Si cerca in particolare di tenere efficiente Swiss, compagnia aerea del gruppo Lufthansa, che ha sospeso tutti i voli posteggiando gli aerei in un enorme aeroporto militare presso Zurigo, meta di gite e selfie dei cittadini confederati con lo sfondo di centinaia di code d’aereo rossocrociate. In Svizzera esiste un sussidio di disoccupazione, ma si cerca di evitare i licenziamenti con il Kurzarbeit, una cosa analoga alla nostra cassa integrazione, che viene concessa con una certa facilità.
Non esiste un vero e proprio lockdown. Sono vietati gli assembramenti sopra le cinque persone, sono stati chiusi negozi non essenziali, parchi e ristoranti, ma le persone sono libere di muoversi su tutto il territorio nazionale, anche se la comunicazione del governo invita tutti al senso di responsabilità e a restare a casa il più possibile. Non ci sono, almeno nel cantone di Zurigo, significativi casi di intolleranza verso chi interpreta le regole in maniera meno stringente, pure in un paese in cui la sorveglianza di comunità è una tradizione seguita e incoraggiata.
Gli italiani che risiedono in Svizzera apprezzano in genere le misure che sono state prese dal governo Conte, pur con sfumature diverse, e alcuni adotterebbero misure altrettanto restrittive anche nella Confederazione. Esiste per tutti la preoccupazione per i famigliari e gli amici in Italia, e per gli interessi lasciati nel loro paese d’origine che non possono essere seguiti come dovrebbero.
Si spera che nei prossimi giorni e settimane si possano sbloccare la visite a parenti e amici in Italia, dato che ci sono famiglie e coppie separate da settimane, pur nel rispetto che tutti auspicano per le norme sanitarie necessarie. Duole dire che si ha la percezione che nessuno si stia occupando della peculiare situazione dei migranti italiani, non i parlamentari eletti all’estero, non le istituzioni predisposte, e neppure i consolati, che sono molto difficili da raggiungere per informazioni, e non aggiornano i loro siti dal primo decreto di marzo.
Gianni Burzi