Ventimila morti. È il cartellino del prezzo del «rischio ragionato» rivendicato da Draghi nell’annunciare le riaperture il prossimo 26 aprile. Riaperture che certo soddisfano alcuni attori politici, Lega in primis, e che suscitano più d’una perplessità in ambito medico, dalla Società italiana di Anestesia, Rianimazione e Terapia intensiva a virologi come Galli e Crisanti.
Il punto però non è argomentare se le aperture siano “troppe” o “troppo poche”. Il punto è che ogni decisione di allentare le misure restrittive ha un costo, e un costo che si paga in vite umane. Ma il Governo si guarda bene di dire a quanto ammonta il «rischio ragionato». Non è quindi una nota ministeriale, un verbale del CTS, un retroscena giornalistico sul Consiglio dei Ministri a comunicare la cifra. È uno studio (Modeling vaccination rollouts, SARS-CoV-2 variants and the requirement for non-pharmaceutical interventions in Italy) apparso il 16 aprile sulla prestigiosa Nature Medicine, frutto della collaborazione tra medici, matematici, ingegneri, esperti di sistemi dinamici e di teoria del controllo provenienti dalle Università di Trento e di Udine, dal Policlinico San Matteo di Pavia e dal Politecnico di Milano.
Gli autori utilizzano un modello di tipo “compartimentale”: la popolazione è divisa in categorie che corrispondono ai possibili stati rispetto a una malattia epidemica, e si determinano, dai dati epidemiologici passati, i tassi di transizione tra le classi.
Nel sistema più semplice si divide la popolazione in “suscettibili”, “infetti” e “guariti”, e si definisce un “tasso di contagio” e un “tasso di guarigione” che determinano, ogni giorno, la variazione del numero di persone in ciascuna classe. Il parametro fondamentale di questi modelli è il tasso di riproduzione dell’epidemia — il famoso R0, legato al numero di contatti per persona e quindi è sensibile agl’interventi che impediscono la propagazione del contagio (dall’uso delle mascherine ai lockdown generalizzati).
Ai fini di questo studio sono state utilizzate invece nove categorie, includendo i casi diagnosticati e quelli non, i casi sintomatici, i casi gravi e i decessi, e introducendo la categoria dei vaccinati per tener conto della campagna d’immunizzazione. Il tasso di contagio viene quindi modulato a seconda degli “interventi non-farmacologici”, ossia delle limitazioni e delle chiusure che riducono il numero di contatti per persona. L’altra variabile principale riguarda la velocità delle vaccinazioni: per simulare l’effetto della campagna vaccinale e la priorità data alle persone anziane, il tasso di letalità viene progressivamente ridotto.
I risultati? Nel caso estremo, senza vaccini e con chiusure blande (negozî e scuole aperte, mantenendo distanze e mascherine) avremmo altri 300.000 morti da qui alla fine dell’anno. Con le stesse riaperture e una campagna vaccinale più veloce di quella in atto, s’arriverebbe a 50.000 (70.000 al ritmo odierno). Con le attuali limitazioni e in assenza di vaccini avremmo altre 30.000 vittime, scendendo fino a 18.000 con le chiusure e una vaccinazione più rapida. 18.000 sono quindi i morti ormai inevitabili, la “base” su cui calcolare il costo di qualunque decisione.
Perché ciascuna strategia di riaperture — ognuna, sia chiaro, con i suoi motivi politici — ha un costo in vite umane. È il «rischio ragionato» di cui si parla un po’ sommessamente. Al netto delle cifre, ogni scelta di aprire qualcosa ha un effetto e quell’effetto è la morte di qualcuno.
Ma c’è di più. È chiaro che le riaperture, riportando R0 a un valore superiore a uno, faranno salire contagi e ospedalizzazioni finché non sarà necessario istituire nuovamente le zone rosse. Certo, si darà la colpa — come Draghi ha anticipato in conferenza stampa — ai comportamenti irresponsabili dei cittadini. A meno dell’applicazione del modello Bolsonaro, questa rimane la situazione più realistica.
Gli autori del nostro articolo confrontano dunque due possibili strategie. Immaginiamo un’alternanza tra un mese di aperture e uno di chiusure: a parità di costo sociale ed economico, si può decidere di aprire ora e chiudere tra un mese o di tener chiuso ora e di riaprire in seguito, mantenendo l’intermittenza. Sui morti attesi, in virtù del parallelo andamento della vaccinazione, la differenza è sostanziale: 47.000 morti alla fine dell’anno aprendo ora, 27.000 aspettando. Eccolo qui, il costo della decisione, il «rischio ragionato». Ventimila persone sacrificate sull’altare del consenso, senza nemmeno un vantaggio economico rilevante.
Ovviamente possiamo sempre sperare che il modello di Giordano et al. sia fallace, che gli autori abbiano stimato male alcuni parametri, che le previsioni non si avverino. Due cose, però, stupiscono. La prima è che, malgrado lo stesso Draghi abbia più volte ribadito essere intenzione del Governo decidere aperture e chiusure in base ai «dati», non abbiamo alcuna idea di come il Governo abbia voluto «ragionare» il rischio. Applicando quali metodi? Possiamo ipotizzare che la cabina di regia abbia i suoi modelli predittivi, i cui risultati potrebbero differire da quelli riportati, e in virtù di queste informazioni si sarebbero prese le ultime decisioni. Certo, sarebbe il caso migliore, ma di un simile modello non si ha notizia, e se ci fosse i dettagli e gli algoritmi non sono pubblici, rendendo impossibile svolgere verifiche indipendenti. Non ci è tuttavia dato sapere se il Governo abbia consultato modelli predittivi, né di conoscerne gli eventuali risultati.
Secondo alcuni retroscena, il CTS non sarebbe nemmeno stato consultato sul capitolo riaperture. Se così fosse, sarebbe ancora più grave e significherebbe che il «rischio ragionato» è in realtà un completo azzardo. Ma poco importa, in realtà. Il Comitato difetta completamente di competenze fisico-matematiche e di scienza della complessità, capacità di cui si avrebbe più bisogno per elaborare previsioni epidemiologiche (stendiamo pietoso velo sulla grottesca vicenda della nomina — e delle dimissioni — dell’“appassionato di matematica” Alberto Gerli nell’illustre consesso).
Resta il fatto che rifugiarsi nel «dato scientifico» per giustificare l’opportunità di aperture e chiusure è fuorviante. È un tentativo di negare che la scelta di adottare una strategia e di accettarne i costi in termini di vittime sia puramente politica. Anche qui, nel nascondersi dietro il fatto «tecnico» (senza però saper dare uno straccio di spiegazione del processo «scientifico» della decisione) si esercita il populismo tecnocratico.
Populismo perché si nasconde al pubblico il cinismo della decisione, dicendo che esistono «ragioni scientifiche» non meglio esplicitate. La scienza, la modellistica non possono dire se sia accettabile aprire i bar a costo di qualche migliaio di morti. Le previsioni e i modelli possono solo dare dei numeri. Stime delle perdite, se si stesse pianificando un’azione militare. La politica decide priorità, il Governo sceglie, e l’opinione pubblica dovrebbe chiedersi: quanti morti ulteriori siamo disposti a sopportare perché la scuola sia in presenza? quanti perché si riaprano i ristoranti? quanti per le attività turistiche? Ma nessuno lo chiede, nessuno lo dice. Un carico di morte di cui, semplicemente, si preferisce tacere.
Questa riflessione è totalmente assente dal dibattito pubblico. Lo studio di cui abbiamo parlato, salvo rare eccezioni, non è stato praticamente rilanciato dalla stampa generalista, malgrado la tendenza a parlare diffusamente dei risultati delle ricerche di argomento pandemico. Non solo non si parla del costo delle riaperture: non si dice nemmeno che le riaperture hanno un prezzo in vite umane. Per quanto la dinamica sia ovvia: ogni apertura corrisponde a nuovi contagiati, qualcuno svilupperà una forma grave di COVID-19, qualcuno morirà. E parliamo di decisioni che si tradurranno in decine di migliaia di vittime.
Un silenzio ancora più assordante se paragonato al fiorire di opinioni sull’opportunità di usare il vaccino AstraZeneca nonostante gli effetti avversi riscontrati. Anche lì abbiamo un certo numero di vittime attese, da confrontare con i benefici collettivi di una rapida campagna vaccinale. Data l’incidenza delle trombosi post vaccino, è una discussione che gira attorno a qualche decina di morti: l’impatto delle riaperture è centinaia di volte maggiore. Ma il motivo è semplice: i morti in seguito al vaccino sono facilmente “identificabili” (anche quando la correlazione è del tutto spuria), quelli causati dalle riaperture no. Si dirà che sono vittime del COVID, non vite sacrificate per accontentare i proprietarî di bar e ristoranti, e i partiti che ne hanno sostenuto le rivendicazioni. E così, nel silenzio generale, senza indignazione alcuna, ventimila persone la cui morte era evitabile non ci saranno più.
Alla conferenza stampa di Draghi mi sarei atteso una domanda: «Presidente, quante persone in più moriranno a causa delle riaperture? Per questo Governo è un prezzo accettabile?». Ma i giornalisti erano troppo impegnati a dire al Presidente del Consiglio quanto sarebbero terrorizzati, se qualcun altro sedesse al suo posto.
Federico Capoani