Sono un italiano: fin qui, nessuna colpa. Appartengono alla “classe 1984”: nemmeno questa una colpa.
Una sfiga, forse sì: quella di appartenere ad una generazione di mezzo, quella generazione “Y” nata a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90: né figli dei fiori, né figli della globalizzazione (svezzati a pane e smartphone e quanto mai “cittadini del mondo”). Una generazione ibrida cresciuta in un mondo del lavoro jurassico ormai estinto, dopato da un benessere diffuso e indottrinato dal mito della crescita felice.
“Studia e farai strada”, dicevano in tanti; “una laurea in Legge è meglio di un’assicurazione sulla vita”, aggiungevano altri.
Ed eccomi qui, a 33 anni, crocifisso dal mercato del lavoro, con una Laurea (cum Laude) in tasca e tanti sogni in un cassetto che non si aprirà mai.
Il miraggio resta sempre lo stesso: né la fama, né il successo, né la ricchezza, nemmeno il famigerato “posto fisso”: semplicemente un lavoro, un dignitosissimo lavoro, che consenta finalmente di esclamare: “ce l’ho fatta!”.
Una doverosa puntualizzazione: non datemi del “choosy” o “kippers” o “neet”, per favore.
Odio l’esterofilia imperante: quantomeno usiate un epiteto nostrano (“sfaticato”, “fannullone”…); e poi, credetemi: non mi sono di certo adagiato sugli allori.
La laurea è stata un traguardo raggiunto dopo anni di fuori corso, ma al costo di mantenersi a tutti i costi da solo, alternando lavoretti in nero e tirocini “aggratis” (anzi, a proprie spese): per definire al meglio la mia posizione, conierei il neologismo di “diversamente occupato”!
Dimenticavo: oltre ad esser figlio degli anni ’80, sono un figlio del Sud: cosa vuol dire, per un giovane – non raccomandato e senza un’impresa di famiglia alle spalle – cercare lavoro al Sud? Il più delle volte, un gioco al lotto: con la differenza, in questo caso, di giocare sulla propria pelle.
Arrivati al primo bivio della propria vita (i trent’anni), così, è facile voltarsi indietro ed accorgersi di aver sprecato i propri anni migliori tra cumuli di libri e lavoretti eternamente precari, temporanei, a scadenza: il prezzo
necessario da pagare per non essere scavalcati da chi gioca al rialzo nella disperazione.
Poi i trent’anni si superano, e si scopre d’improvviso di esser troppo presto invecchiati per il mondo del lavoro: bonus a go-go per l’assunzione di under-30, con buona pace per chi non è né tanto giovane né tanto vecchio.
Allora ci si ributta nuovamente a capofitto negli studi, preparandosi per un concorso pubblico. Peccato che,
eliminati tutti quelli per i quali vige il solito dolente limite d’età, di corposi ne restano ben pochi. E quando per mesi ti prepari per uno dei pochi concorsi a cui aspirare (si veda quello per Assistenti Giudiziari), ti ritrovi a tirare le somme con altri 300.000 disperati per poche centinaia di posti!
Giunge inesorabile, così, il momento di pensare alla fuga, scappare all’estero. Quale meta migliore della
vicinissima Svizzera (e dell’italianissimo Canton Ticino)?
Tanti ce l’hanno fatta, trovando la loro fortuna tra la Svizzera, il Belgio e la Germania, e molli tutto – gli affetti e le amicizie di una vita – per partire, pronto a sfidare la sorte per un tozzo di pane.
Passano i mesi, e ti rendi però conto che il Paradiso non è di questa Terra: qui la tua laurea è fondamentalmente “carta straccia”, e per qualsiasi lavoro, anche umilissimo, si richiede il tedesco madrelingua, o uno dei tanti attestati federali immaginabili (anche per un posto di lavapiatti!) o un permesso di soggiorno (un miraggio senza prima un contratto in mano).
A volte ti rispondono “ma lei è sprecato per questa posizione…”, e al danno si aggiunge la beffa.
Ho il morale a terra: cerco ancora la mia strada, tra cartelloni pubblicitari che raffigurano gli italiani come ratti e giornali elvetici con titoli a tutta pagina del tipo “Costretti ad emigrare!” (riferiti, stavolta, ai Ticinesi: esatto, proprio a causa dell’immigrazione italiana).
Vivere con un pugno di mosche in mano è avvilente: la mia famiglia è un tesoro inestimabile, gli affetti più cari continuano ad essere sempre al mio fianco, comunque pronti a sorreggermi. Ed è in questi momenti che un dilemma, come una preghiera, mi scuote brutalmente la coscienza: si può certamente vivere “per” la Famiglia; ma fin quando si può sopravvivere “di” Famiglia?
Gaspare, un italiano in Svizzera