Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto. A parte questo, è a posto”.(George Best)
George Best, uno che a Manchester se la gioca direttamente col Padreterno nell’iconografia popolare, lo aveva sepolto con una delle frasi più sadiche, definitive e a ben vedere giuste della carriera di quel giovanotto.
Il biondino col numero 7 aveva l’onore di indossare quella che era stata la sua maglia, che era passata per l’interregno di Cantona e che sarebbe finita sulle spalle di un portoghese sfrontato: si chiamerà Cristiano.
Il vecchio George, mentre combatteva una battaglia contro l’alcol ogni settimana più dura, e perdente, si era scocciato di sentirsi paragonare a quel ragazzotto londinese, e lo aveva liquidato così.
Beckham è stato un ottimo giocatore, che ha goduto dei riflettori del semidio: questa sproporzione tra (elevata) qualità sportiva ed esagerata canonizzazione in vita ha confuso le idee di molti sul suo valore calcistico. E gli ha appiccicato addosso un’etichetta da cretinetti modaiolo che non si meritava.
La cosa più indicativa di Beckham è che è impossibile parlarne solo “dentro” il campo: in questi termini il discorso viene affrontato solo dai veri appassionati del calcio, che potranno scornarsi fino alla notte dei tempi, divisi tra quelli innamorati del suo destro vellutato e quelli che invece si adagiano sulla staffilata di cui sopra.
La dimensione mitologica che Beckham si era un po’ costruito e un po’ ritrovato ci permette di guardare in obliquo i vent’anni che, ridendo e scherzando, sono passati.
Davidino fa parte della necessaria iconografia di un decennio, per la precisione degli anni ’90: il jeans giusto, la pettinatura gellata e biondo platino che non risparmierà nemmeno Dawson Leery, la storia d’amore (?) con la cantante più gingillosa del più gingilloso gruppo del periodo e una valanga di rullini Kodac da 24 – esistevano ancora, già – mandati in fumo dal suo visino angelico.
Come la storia sacra registra gli antipapi, la cronaca britannica ha avuto la sua “antifamiglia reale”: belli, pop per vocazione in antagonismo con l’aristocrazia per definizione, andando addirittura oltre al connubio calciatore+bonazza che in realtà sarebbe risultato riduttivo. I Beckham erano oltre; oltre i loro meriti.
La carriera di Beckham è stata una discesa nel nosenso, dal punto di vista sportivo: idolo di Manchester, uno dei tanti galacticos nel Real Madrid, l’esilio tuttosommato prematuro nel 2007 (32 anni) in uno dei football più insulsi del planisfero, talmente insulso da chiamarsi soccer.
Nel mezzo, la pantomima italiana del passaggio al Milan, più per vendere magliette che per risultare decisivo e un fine carriera che nemmeno Ionesco, parcheggiato nel nuovo eldorado europeo in salsa saudita.
Il diluvio di attenzioni, assegni, pseudo scandalucci alla fin fine inutili anche nel fatuo mondo del gossip avrebbero distrutto qualunque atleta: Beckham, tuttosommato, si è conservato bene. Era un divo fuori dal campo, ma persino gli avversari più malfamati gli han tributato il giusto rispetto: Beckham non era un “Veneziano”, irritante talentino che si vede su qualunque campo di calcio di qualunque livello, impegnato ad aggiustarsi l’acconciatura (ebbene no), a pretendere i flash, a non passarla nemmeno sotto minaccia di morte.
Se la sudava, e questo ha sorpreso molti.
Molto spesso confondiamo il valore dell’atleta con il valore del personaggio, e ancora più spesso il valore del personaggio col valore dell’uomo: in questo grandioso mix che la cronaca ci conserva e consegna circa il numero 7 inglese, per interpretare il fenomeno-Beckham, un domani, più che la frase di un giornalista sportivo, più che un esametro dell’epica classica, più che una foto patinata di un giornalaccio da due soldi, tornerà a taglio una frase di Giorgio Armani, tra l’altro suo sponsor:
“L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi