Hendrik Johannes “Johan” Cruyff

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Il calcio rock è nato in Olanda. A suonare la chitarra c’era Johan Cruyff. Non è una questione di capelli lunghi, di fisico tutto ossa, di carisma. È il talento, e il cambiamento: c’è una scultura prima di Michelangelo e una scultura dopo Michelangelo; c’è una musica prima di Bach e dopo Bach; c’è un calcio prima di Cruyff e un calcio dopo Cruyff.

Nessuno ha mai capito se Cruyff fosse destro o mancino, se fosse una punta o un trequartista. Sicuramente non era un numero 10, né un numero 7, né un 9: lui era un “14”, e vallo a spiegare a chi non lo sa già.

Voglio dire: Cruyff è una cosa che la vedi e la comprendi: se non la comprendi quando la vedi, non c’è nessuno che te lo possa spiegare. Cruyff faceva tutto, divinamente: calciava in modo perfetto di destro e di sinistro, correva a perdifiato, aveva coraggio. I dribbling di Cruyff erano rivoltellate alla tempia: una corsa rabbiosa in una direzione, un arresto, fulmineo, un cambio di passo e una sterzata: lui ti saltava, punto. Sapeva tirare staffilate di potenza o pallonetti felpati, disegnati con mano leggera e tratto sicuro, sapendo che il pallone sarebbe andato a morire lì, in quello spigolo.

Ha dato il meglio di sé con tre maglie, personalizzate da quel numero (prima) insipido. Ha svezzato l’Ajax di Amsterdam, togliendogli il ciuccio e imponendogli di diventare grande a livello Europeo; ha fatto più o meno la stessa cosa con il Barcellona, che prima di lui era una realtà iberica e dopo di lui ha compiuto la sua metamorfosi in filosofia di vita: all’indipendentismo e all’identità culturale (in cui Cruyff si calò, battezzando il suo unico figlio col nome catalanissimo di Jordi: per farlo, sotto il franchismo, dovette tornare appositamente in Olanda) si aggiunsero la mentalità del gioco arioso e del possesso palla, che miete vittime ancora oggi – epperò ha iniziato a stufare molti.

Soprattutto, diede dignità a una nazione che allora contava a malapena 14 milioni di abitanti: l’Arancia Meccanica, nomignolo giocondo eppure terribile, era la sua – assieme a Neskeens, Rep e ai fratelli van de Kerkhof. Una delle più grandi ingiustizie della storia pallonara furono gli insuccessi di quella meraviglia organizzata da Rinus Michels: seconda a Germania ’74 e Argentina ’78, terza agli europei ’76. Semplicemente ipnotizzante la ragnatela di passaggi con cui la Germania Ovest venne intrappolata nel primo minuto di gioco: mille passaggi prima di un’accelerazione di Cruyff. Johan viene steso in area, è rigore. Neskeens realizza: nessun tedesco, fino a quel momento, ci ha ancora capito niente. Ma gli Orange, alla fine, perderanno.

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Tre palloni d’oro, tre Coppe dei campioni, dieci (die-ci!, di cui otto consecutivi) campionati, sette coppe nazionali, 369 gol segnati in 662 partite (leggasi: media mostruosa). I giochini del “chi è il migliore di sempre” sono noiosi e soprattutto inutili: scendere in trincea non è produttivo. Pelé o Maradona hanno monopolizzato il discorso, qualche apostata oggi prova a infilarci Leo Messi. Cruyff, nel suo nordico distacco, nel calderone non c’è mai finito.

Ma quelli che amano il football sanno che nessuno dei tre tenori ha cambiato il calcio. Johan, invece, sì.

Umberto Mangiardi

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