Pistorius è il trionfo del buonismo. Il suo trionfo sulla logica, in particolare sulle logiche dello sport, del precedente, perfino del concetto di diversità – un concetto nobile.
Pistorius è un ragazzo forte e coraggioso, con tutto il diritto di combattere la sua battaglia. Da qui, però, a dire che quella battaglia debba essere vinta, ce ne passa.
Specie se la vittoria sconvolge i fondamentali dello sport mondiale; specie se la vittoria è figlia di un’emotività ingenua e isterica e non di una reale presa di coscienza.
Lo sport si basa sul confronto tra individui (o squadre) dotate delle stesse qualità di partenza. Stesso equipaggiamento, stesso ambiente, stesso fisico. Non esiste una canoa più leggera di tot chili; non esiste che vengano messi a confronto un atleta che corre a Bogotà e uno che corre a Riccione; non dovrebbe esistere che venga messo a confronto un atleta normodotato contro un atleta portatore di handicap.
Brutalmente: Asafa Powell si è giocato il piazzamento nella finale dei 100 metri piani per uno strappo muscolare; almeno per quanto riguarda i polpacci, Pistorius da infortuni di questo genere è immune, piaccia o no.
La diversità di condizioni di partenza trasforma la gara in una esibizione, le Olimpiadi in un circo.
È una diversità, e tanto basta per frapporre una barriera. Il gioco del bilancino (non avere strappi è un vantaggio, non avere la spinta muscolare è uno svantaggio) non funziona: primo, perché si tratta di sport e non di pari opportunità; secondo perché esso è figlio di un atteggiamento morale, e soggettivo.
Il mondo del risultato sportivo tende all’oggettività, e imbriglia l’arbitrio in regolamenti il più possibile precisi. C’è il cronometro, c’è la distanza, c’è il momento tecnico (il gol, la stoccata, il canestro, il piattello che salta, l’esercizio da eseguire in un determinato modo).
Non l’interpretazione.
Potenzialmente, questa innovazione (da cui il Cio dovrebbe al più presto prendere le distanze, tornando sui suoi passi) è pericolosa, poiché crea un precedente in un contesto totalmente privo di legislazione: chi discerne tra la protesi A e la protesi B, decidendo che la protesi A è regolare e quella B no?
Con quali criteri? Di nuovo soggettivi?
Esistono esoscheletri metallici che raddoppiano la forza umana: quelle sono protesi regolari o no?
Soprattutto: un lassismo regolamentare del genere non rischia di creare gravi problemi? Ricordiamoci che c’è sempre il fantasma di contesti politici poco trasparenti che non si sono fatti problemi, in passato, ad abusare di sostanze dopanti pur di vedere primeggiare i propri atleti.
Un domani che le protesi divenissero ancora più efficaci, siamo sicuri che nessuno farebbe un pensierino a mutilare un proprio atleta per accaparrarsi un minimo di visibilità? Chimerico, ma forse no.
Ma la portata peggiore del caso-Pistorius tocca le logiche della diversità. La diversità si declina tanto nella società quanto nella psicologia.
La diversità va accettata. La deve accettare il disabile; la deve accettare la società attorno al disabile. La diversità esiste, è un dato di fatto, e non è mischiando le carte che viene cancellata o superata; anzi, viene esaltata.
Più si fa finta che una cosa non sussista, più essa è evidente: è il vecchio paradosso dell’elefante (non pensare all’elefante, non pensare all’elefante, non pensare all’elefante. A cosa stai pensando? All’elefante, naturalmente). Riconoscere la diversità, ed accettarla, non significa creare atleti di serie A e atleti di serie B.
Ad esempio, si potrebbe evitare l’antipatico (e anche qui buonista) apartheid dei Giochi Olimpici separati dai Giochi Paraolimpici, una sorta di contentino posticcio per lavarsi la coscienza. Perché i secondi devono essere disputati in sordina, a due settimane di distanza, quando il bailamme è terminato?
La competizione olimpica, tra atleti nelle stesse condizioni di partenza, è interessante e vibrante tanto a piedi quanto in carrozzina. Nessuno – questa volta per davvero – si accorgerebbe della differenza.
Ma piuttosto che intervenire sulla sostanza, si preferisce una retorica pecettatura di forma, ispirata al pietismo piuttosto che alla reale parificazione.
Non restituisce dignità ai disabili, ma in compenso falsa irrimediabilmente una competizione olimpica. La botte vuota e la moglie sobria: non è da tutti riuscire a creare pasticci del genere.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi
PS – Per completezza (e con un’autorevolezza decisamente superiore alla mia) vi riporto due interventi usciti su La Stampa nei primi giorni di luglio:
– l’opinione di Carlo Vittori, ex tecnico della Federazione Italiana di Atletica Leggera;
– una lettera di Livio Berruti, campione olimpico dei 200 metri alle Olimpiadi di Roma 1960.