Non sono un esperto di tennis, il mio rapporto con l’uso delle racchette si ferma al ping-pong (dove peraltro, nella prima adolescenza, ero piuttosto coriaceo). Me ne appassionai tardi, attorno ai dieci anni, conquistato da tre cose: le sassate di Pat Rafter, gli smash di Sampras, quell’istrione di Andre Agassi (il mio primo amore, legnato senza pietà in tre set nella finale di Wimbledon ’99 dall’altro americano, quello con la lingua di fuori).
Detesto Nadal. In realtà, probabilmente, c’è del freudiano, ché siamo quasi coetanei e sapere che è bello, talentuoso e famoso è una cosa che sinceramente ho sempre digerito come la peperonata dopo l’ammazzacaffè.
Gli spagnoli li trovavo accettabili quando monopolizzavano il Roland Garros (torneo che non mi ha mai appassionato alla follia, e che nel mio gusto è il quarto Slam per importanza) e quivi si dividevano la finale a suon di rovesci bimani (o quando andava bene in back) e dritti lungolinea da ogni posizione del campo. Mi ricordo, per esempio, una noiosissima finale Albert Costa – Mosquito Ferrero ai limiti del senza senso.
Poi, giustamente, il loro tennis da “hic sunt leones” (dove “hic” significava “mezzo metro al di qua della linea di fondo”) veniva risucchiato nell’oblio per il resto dell’anno.
Senza andare dietro alle illazioni sul doping (“Ecco, gli sportivi spagnoli son tutti drogati”: siamo seri…), Nadal ha applicato la maratona alla pesistica; quindi, ha applicato questo strano ibrido al tennis.
In campo lo trovo insopportabile, a cominciare dal preambolo al primo game del primo set: quello scattino mordente composto da tre falcate rapide per andare a posizionarsi dietro la linea di fondo, come a dire “mangerò il campo anche oggi” è sempre stato una irritante dimostrazione muscolare.
Intendiamoci, Rafa ha tocco: ha la sensibilità di un pianista con la resistenza alla fatica di un lattoniere. Ricordo di suoi punti in assoluto recupero, con la palla a ormai dieci centimetri da terra, che diventano dei cross di dritto con un angolo impensabile.
La stoffa c’è.
È un mancino indotto, nel senso che è destrorso in tutto (scrivere, mangiare, suppongo scazzottarsi) ma che utilizza la sinistra per giocare: questo gli dà un primo vantaggio tecnico, perché gioca il colpo forte (il dritto incrociato) sul colpo generalmente debole dell’avversario (il rovescio), con la possibilità di giocarlo aperto o chiuso.
Corre come un indemoniato, e contro di lui “devi fare il punto tre volte” (la definizione è del mahatma Rino Tommasi): la sua strepitosa vigoria atletica gli consente di andare a raccattare la stragrande maggioranza dei colpi dell’avversario.
Chi gioca contro Nadal gioca contro un muro; sillogisticamente, chi tifa per Nadal tifa per un muro.
Questo il suo stile di gioco: allungare lo scambio. È la tecnica dei pessimi giocatori di scacchi (categoria cui io appartengo ampiamente), il cui unico modo di giocare è condurre scriteriatamente la partita cercando di mangiare pezzo per pezzo lo schieramento avversario.
Se alla fine ho più pezzi io, vinco; se ne ho di meno, perdo.
Nadal fa lo stesso: cerca di isolare il Re avversario mediante una serie di passaggi molto obbligati, molto concreti, molto noiosi.
Pallate insistenti per aprirsi il campo, vincente per chiudere il punto. Zero rischi, zero follia, zero sorpresa: se prende lui in mano lo scambio, sei un uomo finito.
Il punto è che ha una tenuta fisica impressionante che gli consente di giocare in questo modo per quattro, cinque, a volte anche sei ore. Un logoramento fisico, quello dell’avversario, cui va di pari passo il logoramento psicologico – ne sa qualcosa Re Roger, che oramai vive una sorta di dramma kubrickiano ogni volta che si trova davanti l’arzillo maiorchino.
Dopo questo incontro di boxe travestito da tennis, di solito vince. E di solito, il pubblico esulta: come si faccia ad apprezzare questo tipo di tennis, resta per me un mistero per solutori più che abili.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi