
Tania Head aveva un aspetto molto americano: la faccia grassoccia, due occhialetti di plastica nera che quadravano un viso tondo dal sorriso triste. Faceva capolino in davvero tantissime fotografie e immagini di intimità newyorkese: era una presenza fissa ai bordi di quella grande voragine di dolore che è Ground Zero, abbracciata ad altre donne distrutte almeno quanto lei, o a stringere grata le mani di Rudolph Giuliani, ex sindaco della Grande Mela.
Era nel gruppo dei superstiti dell’11 settembre: una comunità che si era trovata e coagulata grazie ad internet, impegnata a ritualizzare una pratica che gli americani chiamano “condividere” ma che noi – figli di sottointesi religiosi – chiamiamo “esorcizzare”.
I superstiti dell’11 settembre hanno una vita devastata: non è il banale sfinimento per aver perso i propri cari, né sono le mutilazioni che qualcuno ha subìto. Non è nulla, insomma, che la tradizionale geografia dei traumi lascia presupporre.
I superstiti dell’11 settembre, principalmente, si sentono in colpa. Sono ancora vivi, e questo dal loro punto di vista è insostenibilmente ingiusto.
Ma la storia di Tania, addirittura per gli altri risparmiati dall’attentato, era particolarmente penosa. Innanzitutto, come molti di loro aveva perso l’amore della sua vita. Ma in una maniera beffarda: aveva appena sposato David, raccontava, con una di quelle spensierate cerimonie in riva alla spiaggia di Maui.
Un cliché americano: lui l’aveva vista affaticata e le aveva preparato la sorpresa della vita, un viaggio nelle splendide Hawaii presentato con la generosa teatralità delle sceneggiature di quart’ordine. Un sentiero di petali di rosa sull’uscio di casa, una cena romantica preparata da lui, il biglietto aereo accompagnato dai flute che tintinnano. Il tramonto di Maui aveva benedetto la loro unione, celebrata in mezzo ad un cerchio di orchidee, con i genitori di lei che senza dirle niente si erano precipitati dalla California per assistere commossi a quell’istante prezioso.
Ma Dave ora era morto, e la legge americana di queste cerimonie improvvisate tiene conto fino a un certo punto. Tania aveva dovuto lottare contro le scartoffie della complicata vita di tutti i giorni perché quel matrimonio, mesi dopo l’attentato, venisse perlomeno registrato:
“È stato il mio modo di diventare vedova, aspettare che un giudice buono mi desse in sposa al mio Dave che ormai non c’era più”.
L’attentato aveva visto Tania, suo malgrado, in prima fila: era nella seconda torre, negli uffici della Merrill Lynch dove lavorava dopo le due lauree a Stanford e Harvard.
Era esattamente ai piani dove si stava schiantando il secondo aereo: raccontava di come l’impatto l’avesse sbalzata a metri di distanza, di come avesse la schiena ed il braccio coperti di carburante e fiamme, la pelle improvvisamente marcita e a lembi, il dolore senza un inizio né soprattutto una fine, i cadaveri dei suoi colleghi scempiati dall’esplosione.
Ricordava un ultima cosa: il famoso uomo col foulard rosso sul viso, che tante vite aveva salvato prima di essere sconfitto dalla tragedia, aveva aiutato anche lei. L’aveva presa in braccio, come aveva fatto con molte altre persone che lo ricordavano per quello che era: un eroe.
Era stata due mesi in ospedale, inchiodata su una sedia a rotelle che nessuno poteva spingere – sicuramente non lei, con un braccio per il momento quasi inservibile.
Tania Head, una volta conosciuti gli altri reduci, sembrava aver trovato una via di salvezza: il suo corpo sovrappeso si aggirava con un’energia insospettabile, cercando di aiutare se stessa e gli altri a raccontare, a raccontarsi, a superare, a venirne in qualche modo fuori. Era diventata una grandissima amica per le altre sopravvissute, quella che chiamava tutti i giorni per tirarle su, quella che aveva sofferto più di loro ma che incredibilmente riusciva ad infondere coraggio e determinazione; quella con cui si sorreggevano, reclinando la testa l’una sulla spalla dell’altra, nell’interminabile minuto di silenzio di ogni anniversario.
Ogni tanto aveva qualche momento di grave sconforto: i suoi amici del gruppo temevano potesse fare qualche sciocchezza; ma un po’ di calore umano la ricaricava, e tornava ad essere la solita Tania, forte, solidale, sensibile ai bisogni del gruppo.
Pian piano la sua grinta si era fatta strada nel World Trade Center Survivors’ Network: certo, aveva dovuto farsi un po’ largo tra tutti quelli che non avevano abbastanza tempo, o abbastanza voglia, o abbastanza dolore per organizzare adeguatamente l’associazione. Un’associazione che non aveva un presidente – lacuna cui aveva posto rimedio facendosi nominare lei stessa: qualche telefonata era bastata.
Dopo sei anni, continuava a testimoniare l’orrore dell’11 settembre, accompagnando i visitatori di Ground Zero e raccontando con partecipata verità quello che lei aveva vissuto. Una storia straordinaria, la sua: una storia di volontà, di gentilezza, di carità umana.
Una storia troppo bella da raccontare, pensò un giornalista.
David Dunlap e Serge Kowalesky avevano finito: nel loro ufficio del New York Times avevano appena terminato di scrivere una bomba, sicuramente la notizia della settimana. Sui loro tavoli, una risma abbondante di carta era spatasciata disordinatamente: traboccava di appunti, documenti, dichiarazioni, raffronti.
Tutto finto. Tutto. Finto.
Non c’era una ricevuta del Central Hospital, non una cartella clinica. Harvard e Stanford non la annoveravano nei loro casellari. L’albergo di Maui non l’aveva registrata, alla Merrill Lynch negavano con forza che fosse mai stata loro dipendente; non avevano neppure trovato conferma di alcun rapporto tra lei e il povero David: la famiglia di lui non l’aveva mai sentita nominare.
Tania Head era spagnola: si chiamava Alicia Esteve, ed era figlia di un armatore catalano inguaiato con la giustizia per un giro di tangenti. L’11 settembre non si trovava a New York: La Vanguardia, testata di Barcellona, ha documentato che stesse frequentando la Business School in Catalogna.
Nessuno dei suoi compagni di corso ricorda che parlasse di un marito o di un fidanzato ucciso nell’attentato del World Trade Center.
Un filmato la ritrae una settimana dopo l’11 settembre 2001 mentre ritira sorridente il diploma: è in perfetta salute, fasciata da un abito bianco.
Alicia Esteve è stata rimossa dalla presidenza del World Trade Center Survivors’ Network il 27 settembre del 2007. Da allora ha fatto perdere le sue tracce. Una mail nel febbraio 2008, inviata da un account spagnolo, annunciava al Gruppo dei Superstiti il suo suicidio.
Tuttavia, un fotogramma del 14 settembre 2011 la ritrae a New York: appena accortasi della telecamera, ha avuto una reazione rabbiosa e ha coperto con la mano l’obiettivo.
Nel 2012 è stata licenziata da una compagnia assicurativa di Barcellona dove aveva trovato impiego: la sua presenza, secondo i suoi superiori, era stata notata e stava causando un considerevole danno di immagine alla compagnia.
Nessuno oggi ha più alcuna notizia di lei.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi