La Privacy dei dati non esiste, e dovremmo esserne felici (soprattutto adesso)

privacy big dataPrivacy: sono un po’ di anni che paciocco materiale oggetto di privacy, prima da giornalista e ora da marketer. E mi viene da sorridere quando leggo gli appelli per difendere la propria, di privacy.
Scusate, difendere che?
Non c’è più niente da proteggere: sono palizzate di legno contro i cannoni di Navarone. Cannoni che, peraltro, abbiamo invitato noi stessi al centro del villaggio.
Oggi si parla di rendere accessibili alle autorità sanitarie i dati di movimento e di interrelazione fisica delle persone: vedo levate di scudi a tal proposito e rimango… perplesso.

Nella mia esperienza, ho avuto a che fare con due tipi di privacy: quella individuale e soggettiva, in relazione al diritto di cronaca, e quella aggregata.
La prima è folcloristica, e la racconto brevemente: a meno di grosse sfortune o grosse responsabilità, non tocca praticamente nessuno.
È vero, il buon Warhol sosteneva che tutti avremmo avuto 15 minuti di celebrità, ma fortunatamente non aveva totalmente ragione: intendo dire che è molto raro diventare “notizia”, e il tutto attiene ad essere autore (responsabilità) o vittima (sfortuna) di un evento “notiziabile”, sia esso positivo o negativo non importa.

La seconda è – invece e oramai – una situazione, un dato di fatto. Una cosa che prima o poi succede – a meno di non adottare uno stile di vita vagamente sociopatico: succede come succede di subire la forza di gravità, di respirare più CO2 del dovuto, di salire su un’automobile.
I nostri dati aggregati ci sono, esistono, sono tracciati e noi non ci possiamo fare niente.
Non solo, dovremmo essere contenti.
E dovremmo rassegnarci, autorizzandone l’uso il più possibile, anche da parte della pubblica autorità (che, in casi penali, lo fa già comunque).

Non è una questione di “male non fare, paura non avere“: è una incongruenza, una contraddizione cedere tutti i dati per scopi commerciali e titubare di fronte a situazioni organizzative.
E se il timore è quello di uno Stato che diventa Grande Fratello, il problema è del tipo di Stato in cui viviamo, non certo dello strumento o dei dati.

Non è la bontà d’animo a rendere affidabile Facebook: è il crollo di valore che Facebook subirebbe (e ha subito) se diffondesse (e cioè, quando ha diffuso: -13,67% il titolo, -7% tutto il Nasdaq 100) i dati personali degli utenti. Parimenti, non è la bontà d’animo dello Stato a renderlo affidabile: è la tenuta delle sue istituzioni democratiche.
E questo, mi spiace, prescinde dalla potenza degli strumenti (a meno che non mi vogliate convincere che è più pericoloso possedere un database rispetto a un container di Ar 70/90).

Dovremmo essere contenti di rendere il più fruibili possibile i nostri dati perché la sincronizzazione ha migliorato la nostra qualità della vita.
C’è ovviamente un costo: il costo è una maggiore responsabilizzazione dell’individuo: e per come la vedo io, le occasioni di responsabilizzazione sono un fattore di crescita personale.
Essere responsabilizzati e poter scegliere sono situazioni che ci migliorano come esseri umani.

In che senso migliora la mia qualità della vita? Nel senso che io ho la possibilità di seguire ed essere circondato da materiale e (perché no? Mica è un crimine!prodotti che mi interessano, e mi aiutano a seguire le mie passioni o a soddisfare le mie necessità: che io sia appassionato di decoupage o di death metal, che mi servano pannolini a basso costo o toner da ufficio, il tracciamento e i dati che forniamo ci orientano risposte in linea di massima giuste.

Eh ma mi influenzano, eh ma mi creano una bolla” è la protesta più comune.
Sì e no: anche leggere e scrivere ti rende più influenzabile, anche seguire una religione, una corrente politica, una rete televisiva.
Per fortuna, aggiungo io: siamo esseri sensibili e permeabili, e questo ci apre alle esperienze; ma siamo (e se non lo siamo: dobbiamo diventare) individui razionali, che conoscono e valutano il flusso informativo a cui sono soggetti.
È faticoso, certamente, ma la libertà è faticosa.

A proposito di privacy: per giocare a Candy Crush diamo al produttore l'accesso a moltissimi nostri dati.
A proposito di privacy: per giocare a Candy Crush diamo al produttore l’accesso a moltissimi nostri dati.

La mia libertà, ad esempio, in un sistema democratico e pluralista, è una scelta quotidiana: so perfettamente di essere inserito in (almeno) una trentina di database commerciali o informativi; ho scelto di essere iscritto a quasi una dozzina di social network (un po’ per connessione sociale, un po’ per lavoro); ho almeno 5 account di posta elettronica, ovviamente sincronizzati sui vari device, e potrei continuare.
E posto che magari – per inclinazione o per professione – io sono un eccesso (ma non credo), è semplicemente irrealistico pensare che la stragrande maggioranza della popolazione under 50 sia in una condizione radicalmente diversa dalla mia: si tratta di sistemi gratuiti, per cui è necessaria e implicita una registrazione e/o una identificazione, e si tratta di sistemi che in linea di massima hanno una utilità concreta, lavorativa o sociale o di intrattenimento.

Ma imparare a usare in maniera consapevole tutti questi strumenti, conoscendone le implicazioni, non è più materia da superesperti: oggi è parte della cultura pop, nella sua accezione più basica, “popular”, “popolare”.

L’anatema vagamente orwelliano del “se non paghi niente, il prodotto sei tu” è talmente vero dall’essere diventato un luogo comune, ma ha un difetto: è assolutorio al limite del cospirazionista.
Deresponsabilizza, ed è il comportamento più sbagliato in questo caso: essere un prodotto, un mero target, e non una persona, è una scelta tra il subire e il fruire.
Ma sappiatelo bene: gli strumenti per discernere ed evolvere ci sono tutti, e sono – un’altra volta, ironia della sorte – gratuiti.

Umberto Mangiardi

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