
Più passa il tempo e più il PD dà l’impressione di non essere ancora pronto per le primarie. Di non poterle gestire, di non avere la compattezza né il carisma per reggerne l’urto. Di non generare abbastanza gravità (leggi: sostanza) da contrastare le immense forze centrifughe che le primarie innescano. Due tornate in appena 12 mesi, due campagne elettorali che si sono inseguite fino a fondersi, a nascere l’una dal dissolversi dell’altra: il PD non è pronto per le primarie perché non è capace a mettere un punto, a tirare una riga, a fischiare la fine del match.
Sia nel 2012 (Bersani contro Renzi) sia nel 2013 (Renzi contro il Resto del Mondo) il confronto è esploso in una guerra di bande senza quartiere (e forse senza manco quartier generale: senza l’Imago Christi di una struttura cui rimanere veramente fedeli). Si ha un bel da dire ricordando che negli Stati Uniti il dibattito congressuale è pure peggio: sarà, ma intanto (quasi) nessuno ne ha esperienza diretta; e in secondo luogo il Partito Democratico (quello vero) ha una tradizione ben più solida, in tutti i sensi. Una tradizione bipolarista, innanzitutto; e soprattutto una tradizione di convivenza tra anime diversissime all’interno di un medesimo contesto.
In Italia i fanclub si odiano, nemmeno troppo cordialmente: ci si getta addosso acido, senza pietà né decoro né rispetto né progetto. Ci si dà reciprocamente dei fascisti, degli sfascisti, dei ruderi, dei perbenisti, degli ipocriti, degli evasori fiscali, dei traditori, degli illusi, dei collusi. Per non parlare di quello che è accaduto nel PD di Torino, realtà che volenti o nolenti conosciamo più di altre, in cui lo scandalo dei pacchetti di tessere controllati da quattro cristiani ha provocato l’invio degli ispettori da parte della sede romana per vigilare sulle elezioni congressuali, causando – in questi giorni – una fiorente e desolante letteratura di comunicati stampa, post su internet, interventi su Facebook, interviste su giornali di tutti i livelli.
Uno spettacolo pietoso, in cui i panni sporchi si lavano rumorosamente in piazza, scegliendo con cura la più frequentata. Ovviamente, la colpa è sempre dell’altro – del resto, senza la classica rivendicazione da asilo, il quadro non sarebbe stato completo.
Chi non è immerso in questa guerra civile si interroga: come ha fatto, fino ad oggi, il PD a lavorare in questo clima? Cosa li muove, se non la corsa al privilegio personale? A tutti i livelli, con quali facce si sono ritrovate fino a ieri persone che ora si iniettano veleno letale? Soprattutto, con quali facce si troveranno domani, al momento di serrare le fila e sostenere un progetto comune?
Forse è per questo che nel 2012, per scongiurare questa eventualità, la parte che risultò vincitrice utilizzò lo scorrettissimo argomento del “se perdiamo, ci portiamo via il pallone” (ve lo ricorderete tutti il “Se vince Renzi è scissione”, vero?). Poi vinsero loro, non fu scissione ed anzi Renzi tentò di “fare campagna” pro Bersani, un dovere d’ufficio cui provò a sottoporsi – risultando del resto efficace come un’aspirina contro l’ebola.
E poi: parliamo di un dettaglio, il proselitismo – quello per cui un partito viene votato anche da chi del partito non è militante. Come può avvicinarsi chi non è nato duro e puro (né vuole diventarlo) quando gli stessi membri fanno gare di ortodossia tra loro utilizzando come fattore aggregante la critica spietata a chi non è loro simile, trattandolo se va bene da stupido e se va male da colpevole?
Una squadra in cui litigano tra loro il Presidente, l’allenatore, il capitano e i capi ultrà non s’è mai vista, e di sicuro non ha possibilità di vincere nemmeno il Trofeo Birra Moretti. Probabilmente, una squadra del genere non ha senso di esistere, né merita alcuna fiducia.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi