Tre storie sovietiche

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IL PIROSCAFO KIM

La baia di Nagaevo, all’inizio dell’inverno, non è più adatta alla navigazione. Le ore di luce sono brevi e truci. Il resto è notte rabbiosa. Le raffiche di vento superano le 50 miglia all’ora. Descrivere che cosa sia l’inverno siberiano è inutile: chi non l’ha provato, non può capire; chi lo ha fatto, sa che le parole non sono nulla.

Il piroscafo Kim attraccò a Magadan il 5 dicembre 1947. Portava un carico di schiavi, muscoli e ossa da sacrificare alla Kolyma. Era l’ultima traversata dell’anno. Kubancev, direttore del reparto chirurgico dell’Ospedale centrale, attendeva l’attracco sulla banchina.

Le guardie scaricarono i prigionieri. I malati più gravi, ma ancora in vita, erano spediti negli ospedali per detenuti del capoluogo, di Ola, di Arman e di Dukcha. A Kubancev e alla sua divisione chirurgica, sulla sponda sinistra del fiume, toccavano i feriti appena meno gravi. Furono operate e amputate decine di arti congelati. Quelli che non ce l’avevano fatta erano stati scaricati ancora immobilizzati nelle loro bare di ghiaccio.

A bordo del Kim, i prigionieri avevano tentato una ribellione disperata. Le guardie avevano reagito allagando le stive, i getti d’acqua gelata degli idranti sparati ad altezza d’uomo. Sul ponte, il termometro segnava 40 gradi sotto lo zero.

 

GLI SCACCHI DI KULAGIN

Tutti i compagni di cella, a Butyrki, in quel maledetto 1937, avevamo masticato il pane con determinazione, lottando contro la tentazione di inghiottire e impastandolo con la saliva. Ma era stato il solo Kulagin a dire a ciascuno quando fermarsi, sputando il boccone: la pasta prendeva forma nelle sue mani, come creta docile, diventando Cortés e i suoi spagnoli, il Primo impostore dei Torbidi, il metropolita Filaret, torri e pedoni.

Kulagin arrivò in ospedale portando con sé, tanti anni dopo, i trentadue pezzi ispirati ai Torbidi russi. Gli scacchi messicani li aveva perduti o venduti chissà dove. Ma i russi li custodiva ancora, sopravvissuti a Dio sa quali orrori, passati da una prigione all’altra, da un campo all’altro insieme al loro scultore. Kulagin se li portava con sé, gli occhi sbarrati, insieme ai suoi quaranta chili della fame del Gulag.

A un tratto estrasse una delle torri bianche: prese a succhiarla, mordicchiarla, torturarla con la lingua. Poi la inghiottì. E quindi si avventò sulla Regina nera, la decapitò con un morso e ne ingurgitò la testa. Kulagin difese il sacchetto quando gli infermieri tentarono di impedirgli di rovinare altri pezzi.

La fame, prima della morte, porta alla follia. Ormai la distrofia alimentare di Kulagin era giunta alla sua fase irreversibile. Il medico che si occupò dell’autopsia avrebbe potuto recuperare, dallo stomaco di Kulagin, i due pezzi mancanti. Chissà se fu una sorta di rispetto per quell’artista la scelta di non farlo.

 

LA MORTE DI IL’YA NIKOLAEVIC

Gennaio 1942. Leningrado è stretta in una morsa mortale dall’esercito tedesco. Dopo oltre centoventi giorni d’assedio la razione quotidiana è 125 grammi di pane. Il’ya Nikolaevic Zarkovskij, amputato della gamba destra, non si trova al fronte ma nella città assediata: su un diario annota i fatti accaduti tra il 24 dicembre 1941 e il 26 gennaio 1942.

Il 27 gennaio, Il’ya Nikolaevic macella e in parte divora sul posto, insieme ad altre persone, un cavallo morto di stenti, in strada. Gli affamati sono sorpresi da due guardie, incarcerati e fucilati la mattina successiva. A Leningrado vige la legge marziale: appropriarsi della carcassa dell’animale, che appartiene allo stato, è tradimento.

Riportiamo sotto, per motivi di spazio, soltanto gli ultimi due brani del diario di Il’ya Nikolaevic, annotati i due giorni immediatamente precedenti l’arresto. Il diario, che si chiude con una frase agghiacciante e profetica, rappresenta uno dei documenti storici più incredibili di quei drammatici 900 giorni. 

25 gennaio: Quando ci siamo illusi che questa sera ci risparmierà, il vento si arma di occhi cattivi e scende, come una mano dalle dita infinite, in ogni via, in ogni angolo e sulla prospettiva. È quel vento che il porta la paura. All’ora del coprifuoco il buio diventa tenebra, i palazzi hanno profili che mettono terrore. Nella penombra di questa stanza disperata faccio fatica a muovermi. Non temo i fantasmi: temo i vivi, più pallidi ancora. So che, girandomi, vedrei un disperato famelico pronto ad afferrarmi. Tengo gli occhi sulla carta. Scrivo. Tutta la città è un organismo dolente di agonia. Sento le singole case, le singole stanze. Da qualche parte una madre sta ingannando la figlia per rubarle l’ultimo boccone.

26 gennaio: Oggi ho incontrato Vassilij. Mi ha raccontato che ha venduto tutto, tutti i mobili e tutti i libri, e al mercato delle erbe ha comprato quattro salsicce e le ha divorate. “Carne di cavallo”, mi ha sussurrato. Folle, pazzo, mostro! Non sa da dove viene quella carne? Non li ha visti i morti senza braccia sotto la neve? Non mangerò mai carne, mai! Morirò senza averne mangiata! A meno che la bestia non muoia proprio davanti ai miei occhi, non ne toccherò!

(Una soltanto di queste tre storie è frutto della fantasia).

Andrea Donna e Umberto Mangiardi

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