
In Mali si combatte ormai dal 2012, da quando il governo francese di Hollande ha deciso di inviare l’esercito a sostegno del presidente Amadou Toumani Tourè, deposto da ribelli islamisti vicini ad Al Qaeda. Ragioni e opportunità di questo intervento, costato alle casse transalpine 30 milioni di euro nelle solo due settimane “di apertura” per la logistica, non sono mai state ben chiare. Mentre Hollande si spingeva a cercare giustificazioni nella necessità di difendersi contro l’espansione del terrorismo internazionale, la destra e parte dell’opinione pubblica non esitavano a parlare di neocolonialismo.
Per comprendere meglio che cosa sta succedendo nell’Africa nord-occidentale occorre fare un passo indietro. Fino al marzo del 2012 il Mali era un paese tranquillo, retto da un governo democratico guidato dal legittimamente eletto Tourè. Il 22 marzo un colpo di stato militare ha rovesciato le istituzioni democratiche sospendendo la costituzione. Mi viene in mente la frase di un amico africano “In Africa la democrazia è un concetto molto labile, se uno si sveglia e si mette in testa di governare caccia chi sta al potere e vi si insedia fino a che qualcuno non fa lo stesso con lui“.
Il golpe ha aperto la strada ad una fase di instabilità politica in cui si sono sapientemente inseriti i Tuareg, l’etnia che controlla il nord del paese e che per anni ha fornito mercenari all’esercito di Gheddafi. Diverse sono poi le organizzazioni terroristiche di matrice fondamentalista che operano in quello spicchio di continente africano. Non solo l’ormai onnipresente Al Qaeda per il Maghreb Islamico, ma anche Mujao e Ansar Dine. Il Mali è poi il quartier generale di Mokthar Belmokthar, un algerino il cui cursus honorum nelle organizzazioni paramilitari jihadiste è iniziato in Afghanistan ai tempi della guerra civile. Ci sarebbe il suo gruppo, la brigata al-Mulathamin, dietro il sequestro finito in massacro a In Amenas, in Algeria. Anche gli al-Shabaab somali e i Boko Haram (responsabili dei massacri di cristiani in Nigeria) hanno ramificazioni e cellule attive in Mali. A queste sigle si sono uniti i Tuareg. L’approvvigionamento di questi gruppi, complice un certo lassismo e la mancanza di risorse dei governi, è rimesso al traffico di armi e di droga con piccole bande locali e ai sequestri che spesso finiscono con l’eliminazione degli ostaggi.
Secondo gli analisti in Mali ci sarebbero tutti i presupposti per dare vita ad un nuovo Afghanistan o ad un’altra Somalia, dove la guerra dura ormai da vent’anni. Nel dicembre 2012 l’Onu ha autorizzato, con una risoluzione urgente, l’intervento di una forza a guida africana, e, su richiesta del presidente Tourè, è anche sbarcato un contingente francese che, secondo Hollande, non si ritirerà fino a quando in Mali non sarà ripristinata la democrazia. Potrebbero volerci mesi.
Dietro al nobile intento di fare da baluardo al terrorismo sembrano però celarsi motivazioni meno disinteressate. Innanzitutto il timore di vedere indebolito quel sistema di controllo e di relazioni politico-commerciali che la Francia da sempre esercita sulle sue ex colonie africane, e che va sotto il nome di “Francafrique“. Non certo secondario sarebbe poi l’interesse per le materie prime che il sottosuolo del Mali custodisce, dall’uranio – di cui la Francia è uno dei principali fruitori mondiali – all’oro, ai fosfati e alla bauxite. Non è un mistero che in Africa si stiano muovendo nuovi protagonisti, primi fra tutti i cinesi, e che il predominio di marca esclusivamente occidentale sia ormai un retaggio del passato è quasi un dato di fatto. Certo, stupisce che questa attenzione venga proprio da quel presidente che in campagna elettorale aveva annunciato di voler porre fine all’interventismo francese in Africa.
Più o meno le stesse ragioni che nel 2011 spinsero l’allora presidente Sarkozy ad intervenire in Libia dove a fare gola erano soprattutto i giacimenti petroliferi. Un intervento controproducente che liberò i libici dall’oppressione del regime del Colonnello per consegnare il paese nelle mani di forze vicine ad Al Qaeda.
Il rischio, nel caso del Mali, è quello di un contagio che si estenda rapidamente fino a coinvolgere buona parte del Sahel e forse finanche la Nigeria. Un intervento occidentale nell’area e contro le milizie integraliste potrebbe inoltre scatenare la recrudescenza di fenomeni terroristici anche nel Vecchio Continente. Quello che proprio la Francia per prima sembra temere.
[Aggiornamento del 13 gennaio 2015]: Pare evidente che nonostante gli interventi occidentali (o anzi proprio a causa di essi) la situazione nella zona, in particolare nel nord del Paese, sia quantomai caotica. In particolare è la Libia a creare maggiore scompiglio nella regione: con la deposizione di Gheddafi si è perso l’unico elemento che in qualche modo dava stabilità a un’area attraversata da fortissimi interessi e da grandissime divisioni etniche e religiose. Ad oggi qualunque tentativo di contenimento è fallito. Gli esperti analisti sostengono che l’unico modo per contenere la grande violenza che si è scatenata nell’ultimo anni in Libia e Mali sia un massiccio intervento contenitivo delle Nazioni Unite, altrimenti la violenza e il terrorismo non faranno che aumentare.
Alessandro Porro
@alexxporro