Di padre in figlio, di moglie in marito: la democrazia degli anni ’10 si scopre dinastica

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Morto un papa se ne fa un altro. Perché Santa Romana Chiesa ha sempre avuto l’accortezza di mantenere il suo leader, almeno formalmente, celibe.
E senza eredi.
Il fastidio del rampollo chiamato a raccogliere il ruolo pubblico della famiglia ce l’eravamo tolto tra ‘700 e ‘800: persino le più coriacee monarchie continentali erano state confinate ad un ruolo rappresentativo dopo la Prima Guerra Mondiale, quando non direttamente esautorate.

La fine del Novecento ci fa intravedere – forse – la crisi della democrazia condivisa e partecipata, e forse è dietro l’angolo pure la fine di quella partitica come forma di organizzazione politica.
In parallelo, e forse di conseguenza, il personalismo si è impadronito delle leadership di area. E dal personalismo alla dynasty il passo è più breve di quel che si immagina. Un fenomeno che per la prima volta si affaccia anche in Italia.

La morte di Gianroberto Casaleggio era avvenuta da poche ore, e già ci si interrogava su chi avrebbe ricoperto il ruolo di spin doctor + padrone + eminenza grigia del MoVimento.

Ma a calmare i bollenti spiriti ci ha pensato Davide, il figlio di Gianroberto.
Se vogliamo, nel panorama mondiale, questa è la successione più giustificata. La Casaleggio Associati è un’azienda, e come tutte le società di diritto privato è trasmissibile agli eredi. È logico e giusto che la ditta passi di padre in figlio, e l’eventuale Vietnam che sorgerà tra Davide e i parlamentari sarà un effetto collaterale con risvolti e situazioni indipendenti.
Di certo c’è che Davide manterrà per ora i server del Blogghe e i siti collaterali acchiappaclick, dunque i cordoni della borsa. Dal momento che non si fa politica senza (molti) soldi, non male.

La situazione pentastellata sarà probabilmente vista con invidia da Silvio Berlusconi, che ha implorato la figlia Marina di prendere il suo posto a tempo e ora, ricevendo irremovibili dinieghi: la Presidente di Mondadori si trova benissimo nel ruolo di capitano d’industria, e non ha le stringenti motivazioni del babbo nello scendere in campo. Ma anche da Umberto Bossi, che provò a crearsi in casa un Delfino trovandosi a fare i conti con una Trota.

Piuttosto è interessante vedere come la maggior democrazia occidentale, chiaramente gli Stati Uniti, non abbia grosse alternative al familismo, tanto tra i democratici quanto tra i repubblicani.
Tra i rossi, le primarie dovevano essere un plebiscito per incoronare Hilary Clinton, e solo un fantastico outsider come Bernie Sanders ha impedito una quasi letterale trasposizione nella realtà della coppia presidenziale Claire-Frank Underwood. Ma la realtà, se volete, è pure meglio, con lo scettro degli USA che passerebbe dallo svagato marito Bill alla fredda e calcolatrice Ilariona. Meno sensuale dello sceneggiato di Netflix, certo, ma tant’è.
E che dire invece della compagine Repubblicana? Qui la famiglia egemone sono i texani Bush, che dopo aver appioppato al Paese e al pianeta George padre e George Dàbbliu figlio ci hanno provato con Jeb, fratellino di quest’ultimo, tritato dalla campagna elettorale e costretto a correre a nascondersi per manifesta inadeguatezza.
Il tutto ovviamente senza risalire al quinquennio ’63-’68, quando solo le pallottole impedirono a un “fratello di” l’ereditare la poltrona presidenziale: il nome Kennedy penso vi dica qualcosa.

Non finisce qui: in Francia lo scettro della fazione nazionalista è stato ereditato da Marine Le Pen, che ha migliorato, sdoganato e – perdonate il paradosso – “europeizzato” (proprio nell’antieuropeismo) la creatura di suo padre, il Front National di Jean-Marie.
Marine non si accontenta di essere diventata un politico di razza, capace di dettare l’agenda al governo dai banchi dell’opposizione: sta anche lavorando per accreditare la nipote Marion Maréchal-Le Pen ai tavoli che contano. Marion, classe 1989, nelle elezioni legislative del 2012 è stata eletta deputata al parlamento (vi risparmio i calcoli: aveva 23 anni, la più giovane parlamentare della storia della Francia repubblicana), e nel novembre 2014 il congresso del suo partito l’ha eletta vicepresidente. Per una venticinquenne, grasso che cola.
E se la destra è in queste condizioni, la sinistra francese non sta poi così meglio: del resto la cara Ségoléne Royal, affascinante sfidante di Nicolas Sarkozy nel 2007, è stata moglie proprio fino al 2007 dell’attuale presidente francese, Jean François Hollande.

Ora, le faccende di letto dell’arzillo Monsieur le Président ovviamente ci riguardano poco e interessano ancora meno. Ma questo ennesimo esempio di parentela verticistica si aggiunge al mucchio, che non si limita alle situazioni qua descritte. Per ampliare lo spettro, c’è questo bell’articolo dei nostri amici di Pandora.
Di qui voglio partire per proporre una serie di domande.
Il democratismo diffuso tende a premiare i nomi, i volti e soprattutto i cognomi già noti all’elettorato?
Il sedere a tavoli importanti dei padri è garanzia di privilegio per i figli, come nel medioevo?
L’introduzione a questi tavoli è discriminante, a prescindere dalle capacità dei non introdotti?
L’elevato potere economico di queste famiglie è un fattore presente nell’equazione?

E soprattutto: siamo certi e sicuri che questo democratismo diffuso non sia un cavallo di troia per oligarchie di fatto che, in forza dei fattori evidenziati dalle domande precedenti, sfruttano la loro predominanza pubblica per costruirsi una artificiosa legittimazione trasversale presso un elettorato sempre più imbarbarito?

Umberto Mangiardi

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