Google e l’autodiagnosi: come si esce dal “l’ho letto su internet”

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In quel tempo, c’erano le enciclopedie mediche a fascicoli: uno dilapidava un patrimonio alla Hachette (“prima uscita 1500 lire!”: poi, dalla seconda, erano fucilate dalle diecimila in su) e poteva giocare all’allegro chirurgo con cognizione di causa.
Ci aveva fatto persino una vignetta il buon Silver, papà di Lupo Alberto, in cui Cesira La Talpa dava l’unico commento possibile: “morirà per un errore di stampa“.
Poi vennero Luciano Onder e Michele Mirabella: ciascuno col suo stile – in particolare il primo, monotono come un tosaerba – coccolavano le ipocondrie di un pubblico sempre più anziano, sempre più timoroso di ammalarsi.

Ammalarsi di qualunque cosa: dalla febbre gialla al cimurro, passando per encefalopatia spungiforme, Sars, aviaria, gotta e artrite reumatoide. Si raccontavano scenette grottesche, con nonnette che piombavano dal medico condotto chiedendo “Ma questa AIDS potrei essermela presa?“, e giù fantasie da parte del malcapitato camice bianco che si immaginava l’ottuagenaria in turpi vicende tra limoni ed eroina tagliata maluccio.

Le idiosincrasie diffuse non si accontentano di tirare per i capelli la speranza di vita dell’occidentale medio: oggi pretenderebbero di non farci morire. Proposito ambizioso e condivisibile, per carità, ma difficilotto. E comunque, vallo a spiegare al direttore centrale dell’Inps, che legge la colonna dei morti sui quotidiani più o meno con lo stesso spirito di uno che scorre la colonnina del totocalcio, e con lo stesso scopo: poter contare a fine mese su un bel po’ di soldi in più.
In ogni caso, sia la Treccani del perfetto malato che gli epigoni di Medicina 33 mantengono la loro fascia di pubblico (peraltro, in fisiologica diminuzione).

La nuova frontiera è però Google, soprattutto sull’onda lunga di fiction come Scrubs e Dr. House, oggi un po’ passatelle ma ben sedimentate. Uno tossicchia, o ha un po’ di emicrania, oppure zoppica, ma non va dal medico: complici costi per i medicinali extra ricetta rossa, i tempi biblici, l’onorario degli specialisti privati e (diciamolo senza giri di parole) un po’ di superficiale ignoranza, Google ha sostituito lo stetoscopio.
Il che ha creato non pochi problemi, e non solo negli immediati rapporti umani. Insomma, l’inconveniente non si limita al dottore che si vede piombare un garrulo trentacinquenne convinto di essersi “strappato la schiena” (sic). C’è gente che ci resta secca, se non nell’immediato sul medio-lungo periodo. “Ah, non è allergia?”. “No, è un cancro ai polmoni”.

Per evitare, è notizia di questi giorni la campagna di un sito belga di medicina (Gezondheid en Wetenschap, che tradotto significa Salute e Scienza) in collaborazione col governo fiammingo: i sudditi di Re Filippo hanno realizzato l’immancabile video virale, ma soprattutto hanno acquistato pubblicità su Google per i cento sintomi più cercati, in modo da far apparire la scritta “Non cercarlo su Google, consulta una fonte attendibile” agli improvvidi malati.

In realtà, come al solito, il problema non è dello strumento ma dell’utente: ad esempio, nel  Novembre 2005 il New England Journal of Medicine della Massachusetts Medical Society dimostrò che era possibile diagnosticare – con eccellente precisione – una rara sindrome attraverso una ricerca sul motore di Mountain View.
Il problema è che ad inserire le query della ricerca non era stato un quisque de populo (come io o voi), ma una professoressa universitaria: dunque la signora aveva usato i termini corretti per identificare i sintomi e di riflesso per indirizzare adeguatamente la ricerca.

Google permette di consultare oltre tre miliardi di articoli in campo medico: molti più risultati di quelli che per esempio fornisce Medline (una delle più grandi banche dati della medicina).
Per prime compaiono le enciclopedie online, poi le case farmaceutiche, quindi alla rinfusa riviste non specialistiche, associazioni o ricerche universitarie. Dunque la gerarchia dei risultati è inversa ruispetto ai siti specializzati, che al primo posto mettono proprio le riviste di settore più prestigiose.
Il problema di questi siti è che sono scritti per medici: quindi utilizzano un linguaggio specialistico, settoriale e poco fruibile dall’utente medio. Difficilmente avranno successo nel vasto pubblico, ed in fondo è giusto così.

La battaglia, tanto per cambiare, è culturale: in prima linea ci sono i medici stessi. Soprattutto quelli più giovani, che meglio hanno contezza del problema-autodiagnosi.
Si combatte su due fronti: il primo consiste nel rendersi conto di quanto è diffuso il problema, e scoraggiare quanto più possibile tale pratica; il secondo consiste nel dialogo con il paziente. Parlare tanto, parlare chiaro con il malato che è – sempre e prima di tutto – una persona spaventata. Spiegare due, tre, quattro volte anche le cose più semplici.
Avete il compito di ricostruire la fiducia medico-paziente: è questo il difficile del vostro percorso di studi prima e di carriera poi, non il resto.

Umberto Mangiardi
@UMangiardi

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