Di come la faccenda Alex Schwazer potrebbe tornar utile per recuperare un po’ di umanità

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Una delle occasioni in cui le frivolezze diventano lo specchio di ragionamenti complicatissimi ci è stata offerta domenica da uno sport di cari ragazzi che faticano come somari alpini per una competizione che è sì una noia mortale, ma che ha la ventura di appassionarci in due casi: quando vinciamo una medaglia alle Olimpiadi e/o quando il suddetto medagliato viene pinzato all’antidoping.
Ecco, in breve, la definizione della marcia e la storia di Alex Schwazer, vorace divoratore di cereali Kinder finché qualcuno non si accorse che la sovrabbondanza di fori negli avambracci non era dovuta a una ipocondriaca passione per i vaccini.
Carriera rovinata, squalifica monster, sponsor in fumo. Tutto giusto.

Sennonché a me il povero Alex da quel momento iniziò a starmi simpatico, o forse più precisamente a provocarmi pietà. Amo lo sport, seguo le competizioni (sì, sotto Olimpiadi perfino la marcia e quel suo sculettare indefesso per distanze che mi stancano anche solo in macchina) e di solito il dopato colto in flagrante percorre il seguente schema: nega tutto, poi abbozza, poi ricorre, poi lo silurano in grande stile, poi si pente, poi tira fuori la cazzimma e dice “tanto lo facevano tutti” (e probabilmente ha ragione), ma solo quando è ritirato e comunque squalificato a vita.
Ultimo in ordine di tempo: Danilo Di Luca, ciclista, un Giro, un bronzo mondiale, due Classiche.

Invece l’altoatesino, con quell’accento un po’ così, convocò una conferenza stampa in cui si mise in stile San Sebastiano a cuccarsi la valangata di melma (non era melma) che scatta con automatismo vigliacco e fariseo quando a cascare nella polvere è un beneamato.
Non credo minimamente che la gogna mediatica derivi da amor ferito, in quei casi. È solo piccineria a buon mercato.
Fatto sta che di quella conferenza stampa mi rimase impressa la seguente frase, pronunciata con voce stravolta e coi nervi in caduta libera, piangendo come un reietto.

“Non sapete quante volte a casa ho detto che volevo smettere e tutti a dirmi che dovevo andare avanti, che avevo il potenziale per essere il più forte. Pressioni e sacrifici. Non avete idea quanti sacrifici servono per una sola gara. E se va male sei un coglione. Non voglio essere più giudicato per una prestazione. Sono stufo. Sogno una vita e un lavoro normale”.

E niente, mi sembrò sincero. Non ho voglia di provare a convincere nessuno, e se siete senza peccato non sarò io a ricordarvi che non è vero. Semplicemente in quell’agguato microfonato io ci avevo visto un primo assaggio di un concetto terribile ma molto nobile, a mio modo di vedere: espiazione.
Ci avevo visto un’altra cosa: una logica.
Quell’ “E se va male sei un coglione” è una roba che per motivi miei, nemmeno forse così giustificati, credo di capire benissimo. Un senso di inadeguatezza che causi nel prossimo e ti ritorna addosso come nemmeno la più infame risacca, assieme alla delusione negli altri che diventa delusione degli altri che diventa delusione di te, anche se – razionalmente lo sai – nessuno ti vorrà del male per quello.
Già, razionalmente…

Breve riepilogo del susseguirsi degli eventi, prima di arrivare al punto: Schwazer viene processato, passa qualche anno un po’ in sordina e un po’ a farsi ulteriormente macellare da qualche talk show, smette di usare sostanze dopanti, viene squalificato per 3 anni e 9 mesi, sbattuto fuori dall’Arma dei Carabinieri (un gran casino, nel nostro medioevale sistema di finanziamento sportivo) e soprattutto si mette nelle mani di Sandro Donati, il più incarognito allenatore italiano per quello che riguarda la lotta al doping. Un po’ come se Fabrizio Corona per redimersi si fosse fatto ammaestrare da Umberto Eco: e il contrappasso è servito.
Dopo il lungo purgatorio, Schwazer domenica si presenta alla 50 km di marcia e non è che vince: proprio sbaraglia tutti, in mezzo a peana per l’eroe che si risolleva e qualche rosicamento dei suoi attuali avversari.

Ma come al solito il contorno è interessante almeno quanto la pietanza. Saltano fuori i colpevolisti, quelli del “non dovrebbe più farsi vedere”, “dovrebbe sparire dalla circolazione”, “è la vergogna d’Italia“, “non lo presenterò a mia figlia“. Perché la damnatio memoriae è inesorabile, o almeno questo è ciò che vorrebbero i severissimi giustizialisti. In tutto ciò, il nostro eroe ha imparato a stare al suo posto, e si lascia dire appresso qualunque cosa con umile rassegnazione (o semplicemente “con umiliazione”, se vogliamo giocare con le crasi). Un qualcosa di sovraumano, se ci pensate.
Personalmente, da sportivo in pantofole, detesto essere buggerato, e penso che i dopati dovrebbero essere radiati a vita. Ma ho anche imparato qualche concetto giuridico, negli anni, e tra questi c’è la totale ingiustizia nel cambiare, ex post, lo spettro di sanzioni mentre qualcuno sta commettendo un illecito.
E inoltre, ho avuto la fortuna di imparare che esiste un discorso molto delicato sul significato di una pena.

A cosa serve la pena? Tautologicamente, serve a punire. A causare un danno al reo per evitare che tutti siano indotti in tentazione di barare, rubare, uccidere, eccetera.
Ha anche una funzione rieducativa, per reinserire il soggetto nella società, ed è un discorso che va molto oltre la giustizia sportiva, con senso molto più profondo nell’ambito delle faccende concrete della vita.
Ma ha infine, e in questo caso soprattutto, funzione di redenzione: rispettare la legge significa non solo punire chi la infrange, ma anche riconoscere piena e totale dignità a chi ha scontato la sua punizione. A chi ha pagato.

L’intransigenza con cui ci si approccia a questa in effetti marginale vicenda è indicativa. Dimostra quanta strada debba ancora fare la – parolone – cultura giuridica orizzontale. Non si perdona l’errore, mai, nemmeno quando la giustizia umana fa tutto il possibile per castigare chi sbaglia.
Non si perdona per ottusità o – peggio – per darsi un tono, per guadagnarsi grazie alla propria intransigenza un’aura di “più puro dei puri”. Un trucchetto familiare nell’orchestrazione della propria immagine pubblica. Sulla pelle di un altro.

Non sarà un podista dalla parlata spigolosa a far cambiare abitudini, e se di sforzo si tratterà forse è più giusto destinarlo a vicende più auliche, o anche solo più meritorie. Ma ieri Schwazer ha vinto e mi è tornata alla mente la storia intera, e soprattutto la matassa di motivazioni imperscrutabili che portano qualcuno a combinare un casino troppo più grande di lui: la fragilità, l’insostenibile pesantezza di essere, i desideri, le aspettative, le emozioni che da noi passano agli altri – e per quella via ci tornano amplificate, organizzando nei dettagli un inferno terreno che prima o poi afferra tutti, e che non tutti son capaci di gestire e accantonare.
Gli errori, a volte, sono figli di questi padri.
Riconoscerlo può essere un modo per recuperare la propria umanità: potrebbe valerne la pena. 

Umberto Mangiardi

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