Il marketing del lutto

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Lo so, non c’è nulla di male nelle espressioni di cordoglio che in questi giorni hanno proliferato sui social network. Si versa pubblicamente una lacrima per le vittime di Parigi e si spera che la solidarietà le raggiunga in qualche modo. 
Sono reazioni spontanee, istintive, le si esterna senza pensare.

Eppure è proprio questo il problema. Più reagiamo emotivamente e più perdiamo la nostra capacità critica, al punto che la nostra commozione appare quasi artefatta, costruita, eterodiretta. In una parola: ipocrita, anche se magari non lo è.

Fino a che punto la nostra è empatia e non narcisismo, la necessità, seppur involontaria, di comunicare al mondo di essere una persona sensibile? I social network, in fondo, non sono altro che una gigantesca macchina per fare pubblicità a noi stessi. 
Quale occasione più ghiotta di una tragedia per mostrare il proprio lato migliore?

E così non ci accorgiamo di diventare complici di una sorta di marketing del lutto. La foto del profilo con i colori della bandiera francese è cool. L’hashtag #prayforParis rimane impresso come un efficace slogan pubblicitario. Il simbolo della pace con la Tour Eiffel stilizzata starebbe benissimo su una maglietta.

Ecco come reagisce l’Occidente alle sciagure che lo colpiscono, forse pensano in Libano, in Nigeria, ad Haiti. Risponde con la pubblicità, con il capitalismo delle emozioni.

Una banda di criminali usa la religione come paravento per le atrocità di cui si macchia, e gli occidentali non sanno dire nulla di meglio che #prayforParis, cioè invitare a pregare e a raccogliersi a loro volta nella religione? E non si rendono nemmeno conto di quanto sia incoerente pregare per la città più laica del mondo, Parigi, che ha compiuto una rivoluzione anche per separare lo Stato e la vita pubblica dalla sfera religiosa?

I nostri valori, la nostra storia. Tutto sommerso da una stucchevole superficialità emotiva.

È una forma di cittadinanza passiva quella di limitarsi a condividere frasi e immagini che dovrebbero indurci al pianto e a gridare di non aver paura, anche se ce l’abbiamo, eccome. 
I #jesuisCharlie non hanno fermato i terroristi, non li hanno scoraggiati.

Quindi cosa può fare la differenza? Come si può essere cittadini attivi, consapevoli, pensanti? Partendo dalla cultura. Leggere, informarsi, cercare di capire, smetterla di delegare ai politici la scelta di come reagire al terrore, ma suggerirgli in prima persona soluzioni. 
Qualcuno la chiama “democrazia”: esercitiamola!
Non illudiamoci che con un “like” o un hashtag miglioreremo il mondo! La cultura è ancora il modo migliore per essere davvero sovversivi.

Vi propongo dunque un breve elenco di letture, non di certo esaustivo (anzi, aggiungetene altre nei commenti), per cominciare a comprendere i tempi bui in cui viviamo:

  • Gaetano Colonna, Medio Oriente senza pace. Da Suez al Golfo e oltre: strategie, conflitti e speranze, Edilibri, Milano 2009.
    Il punto di partenza inevitabile per approcciarsi ai tormentati conflitti mediorientali. 
  • Roger Owen, Stato, potere e politica nella formazione del Medio Oriente moderno, trad. it. Il Ponte Editrice, Bologna 2005.
    Un altro libro di Storia. Perché la politica conta più della religione.
  • Franco Cardini, Europa e Islam. Storia un malinteso, Laterza, Roma-Bari 2007.
    Uno dei più grandi medievisti italiani ripercorre il complesso percorso dei rapporti fra Islam e Occidente.
  • Robert Baer, Dormire con il diavolo. Come gli Stati Uniti hanno venduto l’anima per il petrolio, trad. it. Piemme, Casale Monferrato 2006.
    Un ex agente della Cia ci racconta dall’interno l’abbraccio di morte fra Usa, monarchie del Golfo ed estremisti islamici: in nome del petrolio e del denaro.
  • Naomi Klein, Iraq, al punto di partenza. Ipershock, in Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, trad. it. Rizzoli, Milano 2008.
    Nel suo brillante saggio sul neoliberismo, l’autrice di No Logo mette a nudo la distruzione economica dell’Iraq per mano del capitalismo predatorio della destra americana.
  • Graeme Wood, Dall’Islam all’Apocalisse. Anatomia del califfato, “La Repubblica”, 16 marzo 2015.
    Breve ma esauriente analisi per rispondere a una semplice domanda: cos’è lo Stato Islamico?
  • Medyan Dairieh, Lo Stato Islamico, “Vice News” 2014.
    Imprescindile documentario di Vice, girato dall’unico giornalista che sia mai stato ammesso nel Califfato.
  • Zach Beauchamp, The 7 biggest myth about Isis, “Vox”, 15 novembre 2015.
    Con la solita chiarezza e concisione Vox ci aiuta a sfrondare di luoghi comuni la nostra concezione dell’Isis. All’interno molti link utili.
  • AA.VV., Chi ha paura del califfo, Limes, Roma 2015.
    La rivista di geopolitica Limes cura un prezioso volume sullo Stato Islamico e la sua rete di terrore.
  • René Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2003.
    La questione della laicità dello Stato affrontata dal prestigioso storico e politologo francese.
  • Montesquieu, Lettere Persiane, trad it. Garzanti, Milano 2012.
    Perché a volte gli “altri” siamo noi.

Jacopo Di Miceli
(si ringraziano Elle Ti e Andrea Sacchetti per aver contribuito alla bibliografia)

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