Ho sentito suonare per la prima volta Irene Veneziano ad un concorso pianistico nella primavera del 2009 (il “Premio delle Arti“), al conservatorio di Torino. Mi lasciò entusiasta: Irene suonava in maniera spettacolare, impeccabile e totalmente coinvolgente, tanto a livello di tecnica, quanto di interpretazione. Era assolutamente di un altro pianeta rispetto a quello di chi aveva suonato prima di lei (il secondo e il terzo classificato, comunque notevoli).
Ebbi l’occasione di conoscerla di persona durante un masterclass tenutosi al conservatorio di Torino verso l’inizio del 2011, al quale partecipavo come uditore: mi imbucai ad un pranzo in pizzeria con gli allievi del master, ed ebbi occasione di scambiare qualche parola.
L’amicizia vera e propria credo nacque su Facebook, alcuni mesi dopo. Era l’epoca della campagna referendaria contro nucleare, legittimo impedimento e privatizzazione delle risorse idriche: Irene si sbilanciò sulla sua pagina Facebook ad esprimere la sua opinione; disgraziatamente, quando si è un personaggio pubblico, tra i propri follower vi sono esponenti di ogni tipo di umanità. In quell’occasione mi buttai nella mischia, e ne seguì qualche feroce megabit di polemiche staffilate. Dai brevi messaggi di ringraziamento che Irene mi scrisse in quell’occasione, è nata l’amicizia che mi ha permesso di conoscere l’anima dietro le note, e la ragazza dietro la pianista.
Il titolo di questo post non è solo una citazione di un film: esprime un concetto più profondo, che riguarda il mio rapporto con la musica. La musica (e non parlo solo della musica classica, o “colta”) è l’unica forma dell’arte che parla direttamente con il mio lato emotivo e irrazionale. Irene da questo punto di vista riesce a dialogare con ambedue le parti del sottoscritto: dunque “io e me”.
Irene ha suonato a Torino mercoledì pomeriggio, al teatro Alfieri; avendo deciso di recensirla, nell’andarla a sentire ho voluto mettere da parte l’amicizia: per ipercompensare la paura del conflitto di interessi mi sono costretto ad un atteggiamento mentale di “nessuna pietà, nessuna eccezione”.
Pochi minuti prima dello spettacolo mi arriva un suo messaggio: “Il pianoforte è pessimo e insuonabile”. Non ci faccio troppo caso: ho conosciuto troppe, troppe ragazze che tentano di sminuire una loro prova imminente (“Non so un tubo per quest’esame“: 30, solitamente con lode) e Irene, nonostante il suo chilometrico curriculum è pur sempre una (splendida) ragazza.
Scelgo un posto a centro sala, dove so che l’acustica è migliore, per non poter imputare a fattori terzi un mio eventuale mancato gradimento, e ripasso mentalmente il programma del concerto: sono quasi tutti pezzi che conosco. Il repertorio classico, sebbene vastissimo, viene eseguito comunque da decine, se non da centinaia di artisti diversi, e ciascuno di essi si ritrova ad “interpretare” le note sotto le sue dita. L’interpretazione di un brano cammina su un filo sottile come la lama di un bisturi: da un lato c’è il vuoto accademismo fine a se stesso, dall’altro le caricaturali personalizzazioni eccessive. Eppure in mezzo a questo velo coesistono comunque modi diversi, tutti musicalmente validi e intimamente belli, di eseguire il medesimo brano. Questo vale anche per l’uditore: col tempo si sviluppa un “proprio” modo di interpretare un brano: è il modo in cui la tua anima vuole sentirlo.
Per fortuna, quando Irene è salita sul palco e ha iniziato a toccare la tastiera, la mia iper-critica ragione è dovuta rimanere silente, mentre l’anima abbracciava le note che popolavano l’aria: le corde del pianoforte e le mie vibravano assolutamente all’unisono.
La prima parte del concerto l’ho trascorsa sostanzialmente in estasi, abbandonandomi all’ascolto prima della sonata op.81 “Les Adieux” di Beethoven, poi del Notturno di Respighi e infine dello Scherzo n.2 di Chopin. Quest’ultimo in particolare è un pezzo forte del repertorio di Irene, le cui interpretazioni di Chopin sono particolarmente apprezzate anche da chi il critico musicale lo fa di professione. Ascoltandola, si può facilmente capire il perché: al di là dell’intrinseca bellezza del brano, l’esecuzione non è perfetta, è ultraterrena. Ogni nota, ogni pausa, ogni respiro, è tutto al posto giusto, è tutto dove “sento” che dovrebbe essere: la sensazione generale è da brivido.
Non pretendo di essere chirurgico, ma il giudizio non può che essere comunque largamente positivo da ogni possibile punto di vista. Il suono del pianoforte, tra l’altro, è sì vagamente martellato, ma almeno dal centro della sala, questo contribuisce a rendere le note particolarmente sgranate e cristalline anche nelle più rapide volatine.
Ad ogni modo, mi sarei stupito del contrario: sebbene sia giusto aspettarsi che un’organizzazione seria metta a disposizione dello strumentista un pianoforte adeguato, chi del pianismo ha fatto una professione è opportuno che sappia adeguarsi anche ad uno strumento “non ottimale”.
La seconda parte del concerto inizia con un brano di Granados, “El amor y la muerte”: qui devo ammettere che sopravviene un po’ di noia, in gran parte probabilmente dovuta al mio scarso amore per il brano (e più in generale, per i compositori spagnoli). Dal lato tecnico l’esecuzione è ineccepibile, dal lato interpretativo sarebbe utile un commento di chi è in grado di apprezzare maggiormente il genere: per quanto mi riguarda, posso dire che sì, il pezzo era bello e ben eseguito, ma a mio modestissimo parere non al livello di quanto ascoltato prima…
…e dopo ! Il programma si conclude infatti con un altro pezzo forte del repertorio di Irene, ovvero la Rapsodia Spagnola di Liszt, e se prima le mie emozioni erano rimaste piattamente frenate, adesso riprendono a vibrare fin dal primo accordo. Non c’è criticismo che tenga, l’esecuzione è straordinaria, anche se Liszt è considerato repertorio per virtuosi. Il che spesso porta molti esecutori a confonderne la musica con un’esibizione della propria tecnica, ma la bellezza di un brano non si misura in “note al secondo” e Irene lo sa, e lo dimostra.
Le note scorrono impetuose come una cascata nella stagione del disgelo e io mi lascio semplicemente travolgere da esse: l’applauso caloroso e fragoroso del pubblico inizia non appena la pianista esegue l’ultima nota, senza nemmeno aspettare che alzi le mani dalla tastiera. Non voglio aggiungere altro: qualcuno potrebbe chiedersi se davvero io sia diplomato in pianoforte, e non in (s)violino.
L’unica stonatura (tanto per stare in tema) del pomeriggio, è stato il pessimo pubblico. Ammetto di avere una scarsa tolleranza per chi tossisce e si soffia il naso durante un concerto: la comune cortesia e un po’ di buonsenso dovrebbero suggerire a chi è raffreddato di accomodarsi in un posto dove dare il minor fastidio possibile agli altri. Ma fosse solo l’influenza! – talmente elevata, comunque, che se il pubblico non fosse composto al 90% da ottuagenari ci sarebbe da sospettare un’epidemia di tisi. Ad essere odioso è stato il brusio, diffuso e piuttosto restio a spegnersi persino durante l’esecuzione. Per carità, non che voglia farne un discorso generazionale, ma una tale maleducazione ad un concerto non l’ho mai constatata in nessuno dei “maleducati e irrispettosi giovani d’oggi”, come capita di sentirci definiti da qualche sosia di Matusalemme. Particolarmente numerosi e irritanti, i bisbigli di cui sopra mi impediscono di godermi appieno i bis che Irene propone (due pezzi, mi aveva confidato, che doveva suonare in occasioni successive, e che avrebbe eseguito come bis solamente per provarli in pubblico, anche se non ancora maturi per un’esecuzione di qualità).
Finalmente, mentre le ultime note svaniscono nell’aria, la mia parte irrazionale torna nel crepuscolo del suo giaciglio, e mentre il flusso dei miei pensieri torna sotto il controllo del mio lato cerebrale, io abbraccio la pianista scesa dal palco, preparandomi a portare a cena fuori l’amica.
Luca Romano