Beatles o Rolling Stones? Io scelsi la Lennon Revolution

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Fin da piccolo, mi è sempre piaciuto prendere una posizione, la mia posizione. E a chi mi chiedeva di scegliere tra i Beatles e i Rolling Stones, da quando ne ho memoria, ho immancabilmente risposto indicando senza esitazioni i ragazzi di Liverpool.
Dev’essere per questa mia smania di prendere posizione che ho sempre mal sopportato il Ragazzo di Morandi che “amava i Beatles E i Rolling Stones” (a pensarci bene, forse forse ero persino sadicamente contento del “ta ta ta ta ta” dei proiettili destinati al povero ragazzo americano, colpevole di voler dare un colpo al cerchio e uno alla botte).

Come spesso accade per le decisioni che si prendono da piccoli, però, non saprei dire esattamente cosa mi spingesse a schierarmi con i Fab Four invece che con i simpatizzanti del diavolo. Probabilmente perché mia madre mi ha fatto ascoltare prima John e Paul di Mick e Keith, o magari perché i singoli degli scarafaggi sono più “facili” a un primo ascolto. Chissà.

Quale che fosse il motivo, negli anni sono rimasto fedele a quella decisione, pur riconoscendo a Jagger e Richards lo status di geni. E man mano che leggevo libri e guardavo documentari, mi convincevo sempre più della correttezza della mia decisione iniziale.

Ma un episodio, in un certo modo legato alla storia di una canzone (anzi, due canzoni), ha fatto scattare in me la lampadina definitiva.

 

Iniziamo con il dire che la rivalità tra i Beatles e Rolling Stones non c’è mai stata: erano tutti grandi amici, e i Beatles consideravano Jagger e soci dei fratelli minori.

Prova ne sia che al famoso concerto in occasione della loro nomina a Baronetti – quando Lennon pronunciò alla presenza della Regina la famosa frase “per favore quelli con i posti economici battano le mani, gli altri facciano tintinnare i loro gioielli” – nel palco degli amici dei Beatles ci fossero proprio i Rolling Stones.

Pochi sanno, poi, che il primo singolo di successo degli Stones (“I wanna be your man”) fu scritto e poi ceduto loro proprio da Lennon e McCartney.

 

Ora: immaginiamo di essere nella Londra di metà anni ’60. Una città dove sta accadendo praticamente di tutto: grandi artisti, scrittori, musicisti di ogni sorta si trovano qui per dare vita a una delle stagioni più creative della storia dell’intera umanità. 

È anche il periodo delle droghe usate come mezzo per “allargare la mente”, e sui perniciosi effetti “collaterali” prodotti da queste sostanze si sa ancora poco.

LSD, marijuana e hascisc iniziano a circolare con molta facilità e quasi tutti i personaggi un po’ eccentrici e particolari le sperimentano a cuor leggero, tanto che George Harrison e Jonh Lennon provano la prima volta l’LSD a casa del loro medico, che a loro insaputa lo “cala” nel tè…

 

Questo fenomeno di costume (associato alla pratica e all’ostentazione dell’amore libero) allarma i conservatori inglesi, ancora molto forti, i quali vedono la società inglese cambiargli sotto gli occhi senza poterci fare nulla.

C’è allora un tentativo di “repressione” portato avanti da parte di un magistrato particolarmente agguerrito, che si lancia in una sorta di “drogopoli”.

Non viene risparmiato nessuno, anzi: più hanno successo più gli artisti vengono colpiti duramente. Hendrix, Clapton e chi più ne ha più ne metta. Beatles e Rolling Stones vengono chiaramente coinvolti e qualcuno di loro viene addirittura arrestato.

 

Anche dal punto di vista politico c’è molto fermento: tutto il mondo è in subbuglio e il ’68 si sta preparando. Sono molti i movimenti di pensiero che nascono e si sviluppano, soprattutto a Londra.

Questi movimenti si schierano immediatamente e risolutamente a favore dei due gruppi che stanno per lanciare la British invasion in America: addirittura migliaia di giovani scendono nelle piazze a protestare contro questo accanimento. Difendono non solo dei semplici musicisti, ma autentici ispiratori di una vera e propria temperie culturale.

La dura campagna di repressione viene quindi interrotta per evitare peggiori incidenti, e a questo punto i movimenti politici di vario genere si aspettano da parte dei due gruppi un crescente impegno civile.

 

A queste richieste, Beatles e Rolling Stones rispondono a modo loro, proprio in quel ’68 così simbolico, con due pezzi che sono entrati nella storia del rock: “Revolution” e “Street Fighting Man”.

Ed è leggendo e rileggendo i due testi di queste canzoni, e la storia che sta dietro soprattutto al pezzo dei Beatles, che ho finalmente capito perché io “sono per i Beatles”.

 

 

Il testo di “Street Fighting Man” è carico di frustrazione e, soprattutto dal vivo, Jagger trasmette intensamente questo senso di impotenza del “pover’uomo”, che vorrebbe spaccare tutto, fare una sorta di defenestrazione dei governanti che stanno nel “palazzo” ma, sopraffatto da una metropoli sonnacchiosa, altro non può fare se non cantare in una rock band.

Addirittura il nostro Mick vorrebbe ammazzare il re e tutti i suoi servi, ma proprio non può. Sembra quasi voler dire: se voi non dormiste e foste con me io spaccherei tutto, ma visto che dormite io cerco di svegliarvi cantandovi questa canzone.

Beh, potete intuire il mio sbigottimento di quando entrai in età di ragione: era quanto di più lontano da quello che io considero un corretto impegno politico per il cambiamento dello status quo.

 

La storia, infatti, ci (mi) ha insegnato che (detto senza troppi giri di parole) fare casino in maniera disordinata difficilmente porta a un cambiamento. Soprattutto mal digerisco chi chiede agli altri di farlo senza mettersi in prima fila.
La prima volta che, invece, ho avuto un approccio consapevole a “Revolution” e alla sua “storia” è stata praticamente un’epifania.

Lennon ne ha scritte varie versioni (facilmente reperibili), ma quella pubblicata sul White album è secondo me un vero manifesto: i quattro di Liverpool ci dicono che tutti vogliamo cambiare il mondo, farlo evolvere. 
Se parli di rivoluzione potrei starci, ma se parli di distruzione, beh non contarmi tra i tuoi.

Lo zio John ci dice che prima di schierarsi al fianco del rivoluzionario vuole vedere quale piano voglia realizzare; che piuttosto di sostenere menti cariche di odio è disposto a dirti che devi aspettare; soprattutto, prima di pensare a cambiare la costituzione e le istituzioni, ciascuno di noi deve imparare a cambiare e liberare la propria mente.
Soprattutto, ci dice che finché ci limiteremo a portare in giro cartelli con la faccia di Mao, difficilmente otterremo un cambiamento.

Ma poi, alla fine, ci dice di stare tranquilli: tutto andrà a posto, tutto si risolverà per il meglio se, impegnandoci, matureremo un qualcosa definibile come “coscienza civile”.

Essendo cresciuto nel mito dell’assunzione della propria responsabilità da parte di ciascuno, mi innamorai ancor di più di questa canzone. Anzi, me la sono scelta come sveglia, in modo che tutti i giorni, sin da quando apro gli occhi, io possa tener ben presente quale sarà lo scopo della mia giornata (almeno in teoria).

 

Leggendo poi la biografia di Lennon e guardando alcune sue interviste, ho scoperto che originariamente John aveva tutt’altre intenzioni per questa canzone. Invece di quel “count me OUT”, avrebbe voluto infilarci un “out-IN”, per lasciare un po’ il dubbio su quale fosse realmente la sua intenzione.

Intervennero però gli altri tre a imporgli una scelta più di buon senso e meno provocatoria – ma soprattutto più chiara riguardo a quale fosse la loro posizione sulla protesta.

 

E questo è ovviamente un altro aspetto che ho imparato ad amare dei Beatles, considerabili un’alchimia perfettamente bilanciata di quattro personalità diversissime che singolarmente tendevano a eccedere nell’auto-indulgenza verso i propri difetti e le proprie aspirazioni, e che di conseguenza hanno raggiunto le punte più alte solo lavorando in perfetta sincronia e sintonia (non è forse questa l’armonia?), dando vita a quella che secondo me è la più bella musica che sia mai stata scritta nei tempi moderni.

 

Domenico Cerabona
@DomeCerabona

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