Vent’anni dopo Arthur Ashe: la conquista della normalità

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Vent’anni fa moriva Arthur Ashe, prima margherita nera in un campo di fiori fino ad allora eccessivamente bianco: quando iniziò a palleggiare sui campi da tennis, solo un club su dieci negli Stati Uniti consentiva l’accesso ai negri.§
Era un tennis molto lento, nel gioco e nella mentalità: perfino gli US Open, che i giovani appassionati conoscono come impero del cemento, allora si giocavano sulla terra verde di Forrest Hills (la stessa terra verde che consentì a uno scorrettissimo Jimmy Connors di cancellare il segno della palla nel campo di un esterrefatto Corrado Barazzuti nella semifinale del 1978).
Arthur Ashe vi aveva vinto il suo primo Slam, ed il primo in assoluto per un tennista di colore, nel 1968: facile vedervi oggi un piccolo segno dei tempi.

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Il gioco di Ashe era leggero, come del resto tutto il tennis ai tempi del legno: sarà la plastica di fine anni ’80 a favorire in maniera smisurata – e per i puristi, snaturante – gli agonisti, i picchiatori dal fondo (che hanno in Bjorn Borg il loro capostipite, anche se Egli era sicuramente più elegante di un Landl o di uno Hewitt qualunque).
A confermare questa leggiadria nella tecnica sono proprio le date dei successi di Ashe (negli Slam): il primo a 25 anni, il secondo a 27, il terzo – il più prestigioso, il trionfo a Wimbledon nel 1975 – addirittura a 32 anni, proprio contro Jimmy Connors, giovane promessa che iniziava a macinare gioco e grandiosi risultati.

Arthur Ashe lo ha ucciso una trasfusione di sangue infetto: se oggi l’AIDS fa – giustamente – paura, ad inizio anni ’90 (complice una scienza medica ancora titubante, in quel campo) era la sigla del terrore puro, tanto per le celebrità quanto per la gente comune: gli anni che rubarono Nurejev e Freddie Mercury tolsero la vita anche a questo campione americano, che vinceva portando con naturalezza un paio di occhiali spessi e la sua carica umana.
Ritiratosi, lottò contro la segregazione razziale e, una volta malato, per i diritti dei sieropositivi.

Il suo viso estasiato mentre solleva la più bella e prestigiosa coppa del tennis mondiale è una fotografia splendida: il tempio inglese di Wimbledon applaudiva a scena aperta ragazzo nero, quasi timido, e lo faceva con assoluta naturalezza. 
Le differenze vengono abbattute quando diventa ovvio, naturale non percepirle: la conquista di Arthur Ashe fu conquistare la normalità.

Umberto Mangiardi 
@UMangiardi

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