“Ma non ci possono essere ambiguità: noi restiamo uomini, finiremo come uomini. La distanza che ci separa da un’altra specie resta intatta; non è storica. [. . .] una verità che qui, ai limiti della natura, appare evidente; toccati i nostri limiti: non esistono più specie umane, ma la specie umana”.
Con queste parole Robert Antelme, resistente francese deportato a Buchenwald e poi a Dachau, descrive la condizione dei prigionieri in uno dei passi più commoventi e importanti del suo libro più noto, “La specie umana”, pubblicato nel 1947, anno della prima e sfortunata edizione di “Se questo è un uomo”.
Il bisogno, di fronte alla più completa e radicale negazione della propria umanità, di una rivendicazione “quasi biologica” dell’appartenenza ad un’unica ed immodificabile specie umana, fu un sentimento che, seppure non espressamente, fu avvertito con forza anche da Primo Levi durante la prigionia. Nonostante il fallimento completo e definitivo di ogni etica, la vacuità della morale, la perdita di significato della parola dignità, nonostante l’uomo fosse stato portato oltre ogni limite, limiti che non avrebbero mai dovuto essere varcati, non per questo egli cessava di essere uomo.
Ciò traspare in tutta evidenza nel corso dell’esame di chimica sostenuto di fronte al doktor Pannwitz, con il quale inizialmente incrocia “[uno] sguardo che non corse fra due uomini” ma tra due esseri divisi da un’invisibile e insormontabile barriera, il pensiero della cui esistenza sarebbe stato follia solamente qualche anno prima; che, invece, quello sguardo corra sì tra due uomini, per quanto agli antipodi, diventa evidente quando il prigioniero inizia a ricordare gli eventi della sua vita passata, Torino, la laurea in chimica.
Ricordare oggi alcuni di quegli uomini non è né vano né retorico, ma doveroso. Ricordare il giovane polacco Schlome, che subito sviluppa empatia per lo spaesato Levi delle prime ore nel campo, prima di sparire per sempre nel nulla; Diena e Resmy, compagni di cuccetta che si dimostrano cortesi laddove i più sono ostili e pronti ad approfittare del prossimo; Alberto, il fedele amico che aiuterà Levi a sopravvivere al Lager; Jean, il Pikolo del celeberrimo passo di Ulisse; Charles e Arthur, compagni degli ultimi giorni di prigionia, che aiutano Levi a riacquistare la carica umana che la quotidiana lotta per la sopravvivenza nel Lager aveva sopito.
Uomini furono tutti, vittime e carnefici, sommersi e salvati: questa la lezione di Levi, allo stesso tempo amara e intrisa di speranza, che dobbiamo rammentare nel giorno della Memoria.
Stefano Mongilardi
@twitTagli
Leggi la prima parte: Primo Levi: storia di un uomo non banale/1