Odiare i mascalzoni è cosa nobile”
(Quintilliano)
Questo articolo parla di odio verso i politici: mi si perdoni, dunque, la generalizzazione dal sapore vagamente populista quando parlo, per l’appunto, de “i politici”. Partiamo da una considerazione: secondo una larga parte della classe partitica, è l’atteggiamento di parte dell’opinione pubblica a causare gesti drammatici come suicidi, sparatorie davanti a Palazzo Chigi o lanci di statuette del Duomo. È colpa, precisamente, dell’atteggiamento “divisivo” di chi non capisce l’esigenza di unità nazionale, di solidarietà anche nei confronti delle forze politiche a noi avverse; è colpa di chi, noncurante degli interessi del Paese che richiedono uno sforzo di coesione, persiste a costruire barriere e a seminare l’odio.
A questo punto – tanto per fare quattro risate – sarebbe facile ribaltare l’accusa contro chi da anni definisce i manifestanti dei “terroristi”, gli oppositori politici degli “aspiranti dittatori totalitari” e in generale non si è fatto mancare mai nulla in quanto a offese e insulti nei confronti del prossimo: coglioni, mentecatti, mentalmente disturbati, culattoni, bingo bongo e diti medi a profusione – per non parlare di chi, per non essere divisivo, qualche anno fa proponeva la divisione razziale dei vagoni della metropolitana (Matteo Salvini, perché dargli del razzista sarebbe divisivo; mentre l’Apartheid invece è un simbolo di fratellanza universale: ma non divaghiamo).
Sarebbe facile, e quindi io non intendo proseguire oltre; intendo invece mettermi a fare uno dei miei mestieri preferiti: l’avvocato del diavolo – o, in questo caso, del seminatore di odio. Parlo proprio di odio, non di disapprovazione o di feroce contrarietà a precise scelte politiche: parlo di un’avversione rabbiosa che porta a desiderare la distruzione dell’oggetto (o del soggetto) odiato.
Iniziamo da un concetto che forse è poco chiaro ai potenti, ma non solo a loro: odiare non è un comportamento penalmente perseguibile. In Italia il reato di odio non esiste – come non esiste in nessun paese occidentale da quando i regimi totalitari si sono estinti. Quindi, con buona pace dei partiti dell’amore, le persone sono libere di odiarli quanto più vogliono.
Non è reato nemmeno desiderare l’altrui morte, fintanto che non ci si adoperi concretamente per affrettarla: quindi, se ogni sera un seminatore d’odio vuole rivolgere la sua preghierina a Satana perché si porti via il prima possibile l’esponente X del partito Y, di nuovo, è libero di farlo. Certo, augurare il peggio possibile al prossimo può essere considerato moralmente riprovevole; ma qui ci si addentra in un terreno scivoloso: la morale non ha una definizione oggettiva.
Facciamo invece qualche considerazione sull’odio in quanto tale: cosa significa odiare? Significa provare una profonda avversione verso una persona o un insieme di persone, al punto da desiderarne la distruzione – questa è la definizione filosofica di odio. In politica, questo non implica necessariamente il provare dei sentimenti violenti: la “distruzione” di cui si parla può essere infatti intesa in molti modi. “Io vorrei che i politici corrotti e cialtroni venissero distrutti“, nel senso che “vorrei vederli politicamente delegittimati dalle loro condotte criminali, processati e giudicati per le stesse, e vorrei saperli in galera, rinnegati dalla società e soli – finiti in tutti i sensi“.
Chi prova un simile desiderio – che sia legittimo o no, che sia condivisibile o no – non solo non giustifica alcun atteggiamento violento, ma nemmeno lo auspica. Anzi, costoro rigettano la traduzione dell’odio in violenza: in effetti, così facendo si fornisce sempre al potere una giustificazione per politiche sempre più reazionarie, tendenzialmente orientate a reprimere. In ogni caso, desiderare intensamente la distruzione politica, sociale, giudiziaria, di uno o più politici non mi rende un fomentatore di gesti disperati da parte di persone psicolabili.
Cos’è a provocare allora i gesti disperati? Beh, una serie di concause. Premettendo che, se una persona ha dei disturbi mentali, i suoi gesti possono essere anche imprevedibili e non avere una vera e propria causa scatenante, ci sono tre motivazioni principali. La prima è la disperazione: quando si percepisce di non avere più nulla da perdere, la rabbia nei confronti di chi si ritiene responsabile della propria situazione può portare a tentativi di “vendetta” estremi (della serie: “tu mi hai distrutto e portato sull’orlo del suicidio, ma io ti porterò via con me”). La seconda è la frustrazione, la percezione che, qualunque cosa si faccia, si è impotenti di fronte agli abusi del potere (il voto vanificato da inciuci e compravendite di parlamentari, le manifestazioni ignorate…). La molla è il desiderio di attenzione mediatica (o di considerazione politica a tutti i costi).
Il terzo motivo sono i casi di provocazione: politici e media politicizzati non di rado si disturbano a dire che determinate categorie di persone sono “criminali, terroristi, fancazzisti, eversivi e coglioni“, dopodiché tali parole vengono amplificate (e in qualche caso fatte proprie) dai media. A questo punto le reazioni sono almeno uguali e contrarie, e dall’esasperazione di esse può scaturire la violenza. L’accusare, poi, chi prova già sentimenti fortemente negativi verso la politica o una parte di essa, di “essere causa di gesti estremi e violenti, compiuti da psicopatici o disperati“, può portare inasprimenti ulteriori.
C’è poi un altro discorso da fare, sull’importanza delle parole: proprio per il fatto che odiare è considerato moralmente inaccettabile in generale, chi parla apertamente di odio difficilmente farà molti proseliti. Al contrario, il modo migliore per suscitare odio nelle persone permettendo alla loro coscienza di legittimarlo (così da renderlo, stavolta sì, un sentimento folle, cieco e propenso a giustificare ogni tipo di azione), consiste nel dargli un altro nome: ad esempio, amore.
Il termine partito dell’amore, che negli ultimi anni qualcuno ha utilizzato per definire una forza politica – collocando, quindi, tutte le altre tra gli “odiatori” – non è una trovata del dibattito italiano. L’ha inventato uno che sul modo di veicolare l’odio tramite il suo opposto letterale la sapeva abbastanza lunga: Josif Stalin. Proprio ispirandosi a Stalin e alle sue locuzioni su odio e amore, George Orwell, nel romanzo 1984, chiama “Ministero dell’amore” (Miniamor) il ministero che si occupa della repressione del dissenso, esercitata tramite la psicopolizia: l’utilizzo del termine amore spinge infatti la gente ad accettare qualunque azione da parte dell’organismo politico, in quanto viene percepita come necessariamente orientata al bene pubblico e alla sconfitta di chi “odia”.
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Dunque, per concludere: ciò che cercano realmente i politici quando accusano chi li detesta di essere i mandanti morali dei gesti più violenti e inconsulti, non è stigmatizzare l’odio dei pochi, ma di suscitare quello di tutti gli altri. Il paralogismo è semplice: quella persona lì odia, quindi dobbiamo odiarlo, perché noi siamo gente che ama. Non ha fatto nulla di male, ma il suo odio potrebbe spingere altri a fare qualcosa di male. Quindi è giusto reprimere il suo odio, in nome dell’amore. Se non sei d’accordo vuol dire che odi anche tu. A morte chi odia, e dagli all’untore.
Luca Romano
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