C’è burrasca sullo scenario politico nazionale: la legge elettorale concordata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi è un mistero, e l’unico dato pacifico è che scontenta tutti coloro che dall’accordo sono stati tagliati fuori, dalla minoranza del PD agli alfaniani, passando per Lega e UDC. Cerchiamo di capire con la massima precisione le impostazioni e le conseguenze, in modo da poterne discutere con la maggior cognizione di causa possibile.
Incostituzionale senza l’abolizione del Senato
La legge elettorale che propone Matteo Renzi è una legge monocamerale: una legge dunque che si rivolgerà solo alla Camera dei Deputati, non considerando il Senato della Repubblica. Nella visione del Segretario del PD il Senato sarà composto automaticamente dai delegati delle regioni.
Qui c’è il primo grosso problema: l’articolo 57 della Costituzione è molto chiaro in merito.
“Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero”.
In primis, il comma 1 pretende che i senatori vengano “eletti”, e non designati dalle regioni. In secondo luogo l’elezione dei senatori avviene su base regionale, e questo contrasterebbe con un’impostazione della legge su base nazionale – così come la vuole il buon Matteo. Senza modifiche costituzionali, devi fare i conti con le regioni; se non vuoi fare i conti con le regioni devi cambiare la Costituzione.
Dunque la legge elettorale concordata da Renzi e Berlusconi, per diventare effettiva, deve essere approvata dopo una modifica profonda dell’assetto istituzionale dello Stato: possibile, ma lungo.
Una modifica costituzionale del genere impiega per legge (art. 138 Costituzione) almeno tre mesi (dove “almeno” è la parola chiave): una legge costituzionale deve essere approvata a maggioranza assoluta (cioè maggioranza degli aventi diritto al voto: in pratica, 158 sì al Senato e 316 alla Camera) da entrambi i rami del Parlamento a distanza di tre mesi da una lettura all’altra. Questo significa che il testo proposto ad esempio dalla Camera deve essere integralmente approvato alla Camera, integralmente approvato al Senato, poi devono trascorrere tre mesi, quindi essere ri-approvato alla Camera e ri-approvato al Senato. Il tutto – sempre! – con maggioranza almeno assoluta.
Cosa succede nella realtà dei fatti? Succede che molto difficilmente un testo viene approvato così come nasce: esso viene modificato ed emendato fino a raggiungere una forma soddisfacente per un numero cospicuo di parlamentari (leggi: forze partitiche). Dunque dopo diversi mesi di concertazione parlamentare può partire il treno vero e proprio della riforma costituzionale (che dura appunto, per legge, tre mesi).
Senza contare, poi, che con la semplice maggioranza assoluta non si è al riparo da un Referendum costituzionale: se il Parlamento non approva con la maggioranza dei 2/3 (eventualità impossibile allo stato attuale: mai i 5 stelle – ed i piccoli partiti, per motivi che spiegheremo dopo – si presterebbero a un tale gioco) è facile convocare un Referendum per chiedere all’elettorato conferma della manovra appena intrapresa. Una conferma che avviene molto raramente (nel 2006, ad esempio, la riforma costituzionale che prevedeva tra le altre cose il dimezzamento dei parlamentari ed un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio – venne bocciata sonoramente).
Senza riforma costituzionale, la legge Renzi-Berlusconi non passerà il vaglio del Presidente della Repubblica (episodio già visto con Ciampi e la prima versione del Porcellum); e comunque, quand’anche Napolitano fosse obbligato a firmare la legge elettorale dopo un rinvio alle camere ed una riproposizione integrale del testo precedentemente bocciato, la Corte Costituzionale avrebbe gioco facile a farne carne trita.
Facciamo finta che in tre mesi, infervorati dalla voglia di cambiamento ed in piena campagna elettorale per le europee, il Parlamento decida di dimezzarsi. Si tratta di una eventualità stile “tacchino che fa il tifo per il Natale”, con i senatori che voterebbero per la loro stessa scomparsa, ma diamo per scontato che tutto ciò avvenga.
Lo sbarramento
La legge prevede due paletti, uno in alto e uno in basso. In basso c’è lo sbarramento: per “entrare” in Parlamento bisogna prendere in tutta Italia almeno l’8%. Tale soglia però scende al 5% se si fa parte di una coalizione.
Questa è una contraddizione con quanto enunciato da Renzi: se si vogliono eliminare i piccoli partiti ed i carrozzoni di governo stile Unione e PDL (Fini+Casini+Silvio), con queste soglie si suggerisce esattamente la strategia opposta. I piccoli partiti, consapevoli di non raggiungere l’8%, correranno dai grandi schieramenti per contrattare una coalizione in vista delle elezioni in modo da far valere il loro 5%. Avranno di sicuro meno potere di ricatto prima, ma né scompariranno né smetteranno di fare la voce grossa nel momento in cui saranno effettivamente entrati a Montecitorio. Guardate il comportamento di SEL e prima ancora di Fini per credere.
C’è poi un problema di – chiamiamola – “filosofia politica”: è giusto o non è giusto togliere rappresentatività a tutti coloro che l’8 non lo raggiungono? Questo significherebbe segare tutti gli schieramenti che arrivano anche solo al 7%, che tradotti in cifre sono circa tre milioni di persone. Se poi questo 7% si moltiplicasse (esempio: 7% Lega, 7% SEL, 7% UDC) ci sarebbe un 21% di elettori non rappresentati. D’accordo, prospettiva improbabile, ma a livello di teoria e di principio è una scelta che ci si sente di sottoscrivere? Parliamone.
Il premio di maggioranza
Come dite? Non c’è del rosso? Appunto.
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Ecco uno degli aspetti più controversi di questa proposta di legge. La Corte Costituzionale poche settimane fa è stata chiarissima: il premio di maggioranza può esistere, ma non deve essere eccessivo. Perché non è stata più chiara ancora, dando dei numeri certi (10% bene, 20% male, ad esempio)? Perché non può farlo, sarebbe una ingerenza mostruosa sull’autonomia del potere legislativo. Almeno a questo principio consentiteci di tenere particolarmente, da Montesquieu in giù.
La proposta Renzi-Berlusconi cerca – ricordiamoci che al momento ci sono solo discussioni e nessun disegno di legge: stiamo ragionando su ipotesi – di rispondere al parere della Corte con un compromesso: da una parte un premio di maggioranza corposo (fino al 18%); dall’altra – ed ecco il contentino – uno zoccolo duro effettivo su cui poggiare questo premio. Adesso spieghiamo.
Per ottenere il premio di maggioranza un singolo partito o una coalizione (eccolo qui, il potere dei partitini! Questa parte della legge ha senso, in un ottica di azzeramento dei partitini, se si premia il primo partito, ma non se si premia la coalizione!) deve superare il 35% dei voti. Se nessun partito (o coalizione!) arriva a queste cifre, abbiamo un ballottaggio tra i due migliori schieramenti. È il famoso “doppio turno”, che diventerebbe però molto raro: i “doppi turni” del resto del mondo prevedono soglie del 51, un risultato che è oggettivamente complicato da raggiungere; diverso il discorso con una soglia al 35%, raggiungibile molto agevolmente da una coalizione o da un partito “serio” (il solo PDL del 2008 prese il 37%).
Esempio: mettiamo che la coalizione (!) di Renzi prenda il 38%; Grillo prende il 24%; Berlusconi prende il 29%; il restante 9% non supera lo sbarramento e viene tagliato fuori. Renzi a questo punto passa automaticamente al 55% dei parlamentari (il massimo possibile secondo quanto proposto da Renzi), mentre il 45% dell’opposizione viene diviso in due secondo una proporzione che rispetti il delta .
% di seggi M5S = 24 : (24+29) x 45= 19.5 %
% di seggi PDL = 29 : (24+29) x 45 = 25.5 %
Se siete renziani, probabilmente ora vi starete fregando le mani: ma se vince l’altro? La governabilità è assicurata – sempre che le coalizioni tengano ed i parlamentari restino fedeli; il compromesso politico va a farsi benedire. Anche qui, parliamone dopo aver ben compreso pregi e difetti della faccenda.
Liste bloccate
Chi sono i parlamentari che siederanno alla Camera? O meglio: come verranno scelti? Berlusconi – dice Renzi – ha preteso le liste bloccate. C’è differenza dalle liste bloccate del Porcellum? Sì, perché sono liste “corte”: da quattro nominati per le zone piccole (in politichese: collegi da 500.000 persone) a cinque nominati per le grandi zone (collegi da più di 500.000 votanti). I “listini” saranno stampati sulle schede, in modo da consentire agli elettori di capire chi stanno votando.
Fino a qui, tutto pare abbastanza ordinato. Resta comunque importante l’ordine con cui i nominativi verranno posizionati: a deciderlo saranno i singoli partiti, vuoi con primarie vuoi con imposizioni verticistiche. Sicuramente, se le parlamentarie non diverranno costume trasversale e condiviso, ci troveremo dinnanzi ad un parlamento di nominati; al tempo stesso, né le parlamentarie dei 5 Stelle né quelle di PD e SEL hanno finora dato prova di clamorosa trasparenza ed efficacia.
Arriviamo al nocciolo della faccenda: chi passa e come nei singoli listini? Chi e come viene eletto? Valgono, come detto prima, le percentuali nazionali al netto del premio di maggioranza. Nell’esempio di prima, 55% a Renzi, 19.5% a Grillo e 25.5% a Berlusconi, su un listino da quattro vi saranno due parlamentari per Renzi, un parlamentare a Grillo ed un parlamentare a Berlusconi. Verosimilmente e a meno di risultati fantascientifici, i primi due nominati in lista sono quelli “che contano” – ed il primo più del secondo; gli altri due/tre sono messi lì a fare numero.
In termini generali, i listini hanno un senso se il territorio elegge il suo deputato ed il deputato ha un “vincolo di mandato” (lo sappiamo che la Costituzione lo esclude, ma è per capirci) con il territorio che lo ha eletto. Ma cosa abbiamo sottolineato già mille volte? Che conta la distribuzione dei voti su base nazionale. Per spiegarci, utilizziamo un esempio molto sciocco: ipotizziamo esistano solo due collegi, uno per regione, collegio della Lombardia e collegio della Toscana. Nel collegio lombardo, i quattro nomi del PD sono visti come il fumo negli occhi: quella lista prenderà lo 0%. Nel collegio toscano, i quattro del PD sono gli idoli delle folle e prendono il 100%. Stessa cosa, ma speculare, per i candidati di Forza Italia (ammettiamo, per comodità dell’esempio, che non esistano altri partiti).
Scatta la famigerata “media del pollo” del poeta romano Trilussa: PD e Forza Italia hanno il 50% su “base nazionale”, e dunque la Lombardia eleggerà i primi 2 deputati della lista di FI (che vuole), e 2 deputati della lista del PD che non avrebbe mai e poi mai digerito.
Idem in Toscana. Questo esempio, lo abbiamo premesso, è semplicistico ed incompleto: non tiene conto dell’esistenza di altre liste, del premio di maggioranza e di mille altre variabili. Ma serve per sottolineare quanto il rapporto tra territorialità ed elezione sia molto più blando di quello che possa apparire ad una occhiata superficiale.
Così è come – ad una attenta lettura di altri articoli di analisi ed un ascolto approfondito della relazione di Matteo Renzi – si presenta la proposta oggi in ballo. Le criticità sono molte e le abbiamo provate ad elencare. Sappiamo, comunque, che il disegno di legge sarà diverso sin dalla partenza da quanto proposto finora, e comunque sarà ulteriormente emendabile. Ma per discutere con cognizione di causa a noi piace mettere da subito tutti gli elementi sul tavolo.
Umberto Mangiardi (@UMangiardi)
e Domenico Cerabona (@DomeCerabona)