«Ah quindi studi storia? Come fai con tutte quelle date?».
«Storia dici? Scusa se te lo dico, ma a scuola mi faceva schifo, non capivo mai nulla».
«Lo storico? Ma non ti sembra strano ragionare sempre di gente morta?»
«Storia? Tipo Piero Angela e Asterix e Obelix?».
«Vuoi studiare Storia? Ma perché non fai qualcosa di utile e quella la lasci come hobby?».
Studio Storia, e queste frasi me le sono sentite ripetere tante di quelle volte negli anni, che ho smesso di farci caso. Ciononostante addentrandomi nei meandri della Storia accademicamente definita, mi sono reso conto che quelle esternazioni non erano solamente sintomo di ignoranza o mancanza di approfondimento.
La Storia – con la sua S maiuscola troppo spesso, pedissequamente, ribadita – è sempre più lontana dalla realtà: è sempre più un blocco di ingranaggi che ruzzola gaiamente in un dorato mondo accademico, contento del proprio barcamenarsi senza interazione con il resto del mondo.
Certamente questa visione non sarà assoluta e univoca, ma chi si occupa di ricerca e divulgazione non può non notarlo: in Italia (ma non solo) la Storia è un argomento la cui importanza viene troppo poco spesso ribadita nel quotidiano.
E quando è sulla bocca di tutti, sempre più spesso la cognizione di causa e le qualità scientifiche lasciano spazio a preconcetti o a usi impropri (tema già toccato da noi qui e qui).
Le cose però stanno cambiando.
Nei giorni dal 5 al 9 giugno 2017 la città di Ravenna ha visto le strade del suo centro animarsi di una colorita e multiforme comunità di storici provenienti da tutto il mondo.
La città è stata, infatti, la sede della 4° Conferenza Annuale dell’International Federation for Public History (IFPH), e allo stesso tempo del 1° convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Public History (AIPH).
Svoltasi nelle aule del Campus Universitario di Ravenna, dipendente dall’Università di Bologna, la conferenza ha visto la partecipazione, come panelist o come uditori, di oltre 500 studiosi e studenti, e la collaborazione di istituti culturali italiani e università straniere, compreso questo umile scrivente.

Ma di cosa parliamo quando usiamo la formula Public History?
La Public History è nata in ambito accademico statunitense negli anni ’70 del secolo scorso. I suoi intenti erano di portare la Storia fuori dalle accademie, far conoscere la ricerca al popolo, allacciare le narrative non ufficiali e dei gruppi subalterni, rendere davvero la storia un patrimonio comune dove più voci concertavano più narrative.
In una parola: divulgare.
“Storia Pubblica” è una consonanza di termini che ci può far storcere il naso, ci può far pensare a una narrazione calata dall’alto ad uso del potere per ammansire le masse, ma non è così.
Non si tratta di un fortino di intellettuali noiosi terrorizzati dal perdere il proprio predominio sul passato, ma un tentativo di aumentare la consapevolezza collettiva e permettere anche agli storici non professionisti di prendere parte al dibattito storico: questo è la Public History.
Ai tempi erano i musei, le mostre, i piccoli centri di conservazione della memoria, i programmi radiofonici e televisivi gli strumenti a cui la Public History si mostrava più interessata: chiaramente lo storico interattivo con il pubblico era una figura che esisteva da prima della Public History; l’intento di questa era rendere scientifiche e regolari le pratiche di narrazione e divulgazione storica fuori dalle accademie.
Arrivata ufficialmente negli anni ’90 in Europa e nei primi 2000 in Italia, la Public History si propose come un modo per permettere ai giovani storici appena formati dalle accademie di trovare lavoro – orrore degli orrori – fuori dalle stesse: nei musei, nelle associazioni, nelle amministrazioni pubbliche, nelle comunità locali.
Con la diffusione di internet e la digitalizzazione di sempre più materiale storico, la Storia ormai correva sul filo a velocità altissima, sfuggendo sempre di più alle pastoie accademiche, ma spesso anche al controllo e al rigore scientifico.
Da questo punto di vista l’Italia si è mossa con considerevole ritardo: la ritrosia dell’accademia italiana, poco interessata e a tratti spaventata da un confronto diretto con il pubblico, e la crisi generale dell’universo umanistico degli ultimi due decenni hanno fatto sì che la Public History arrancasse in questo Paese.
Allo stesso tempo, il grande numero di non accademici che si è occupato e si occupa di divulgazione storica senza una formazione adeguata – pensiamo agli innumerevoli romanzi storici o ai saggi scritti da blasonati giornalisti – ha fatto chiedere a molti se la Public History non esistesse già in Italia con modalità del tutto acefale e quindi poco serie.
Per la PH il Public Historian deve combattere sullo stesso terreno, proponendo la Storia attraverso gli stessi canali dei prodotti commerciali, ma con la marcia in più del rigore storiografico e della correttezza che – in teoria – contraddistinguerebbe il “buon storico”. La Public History si propone di rivalutare gli storici non professionisti – archivisti locali, attivisti culturali, collezionisti, insegnanti di tutti i gradi e tanti altri – per farli incontrare agli accademici e ai ricercatori, e insieme sviluppare una Storia per tutti.
È in questo contesto che la conferenza di Ravenna si è rivelata un evento importantissimo, ponendosi come fondazione della Public History in Italia, chiamando a raccolta storici accademici e storici amatoriali, ricercatori e dottorandi, studenti e semplici appassionati italiani. Tutti questi si sono incontrati con loro omologhi da tutto il mondo, richiamati per la 4° Conferenza annuale IFPH.
Da storico “wannabe” non ho potuto resistere al richiamo di Clio.

Di fondazione si è proprio trattato: durante la conferenza i membri della neonata AIPH sono stati chiamati ad eleggere il consiglio direttivo e il presidente della neonata associazione. Nel consiglio possiamo trovare nomi quali Chiara Ottaviano, Luigi Tomassini, Paolo Pezzino e Serge Noiret – quest’ultimo eletto presidente per acclamazione.
Con una call for paper aperta ad inizio autunno 2016 che ha visto letteralmente una valanga di proposte, la conferenza ha visto un numero incredibile e variopinto di contributi, divisi in panel della AIPH e panel della IFPH.
I numeri della conferenza riportano oltre 90 panel, contenenti in tutto 360 relazioni, e 57 poster, per alcune centinaia di speaker e uditori provenienti da tutto il globo, con una notevole partecipazione di panelist delle due Americhe.
Scorrere i titoli dei vari interventi (qui potete trovarne alcuni) mostra perfettamente quanto la Public History utilizzi sia vie già battute che nuovi percorsi, approcci classici e nuove tecnologie, interessi professionali e interessi commerciali.
Ecco alcuni esempi di panel per render meglio l’idea:
- Public History Is not a “Turn-Key” Movement: Considerations when practicing Public History across Cultures
- Public History and Digital Archives
- History, Memory and Acts of Public Commemoration
- Engaging the public through Interactive History
- Ai margini della Public History. Periferie, storia, comunità.
- Reenactment, archeologia pubblica e patrimonio: esempi di valorizzazione e collaborazione tra enti pubblici, impresa ed associazionismo.
- Gli archivi e la Public History: un incontro possibile
Al fianco di temi più usuali, quali la musealizzazione del patrimonio, la digitalizzazione degli archivi, la realizzazione di documentari storici e la teorizzazione della disciplina di Public History, la conferenza ha deciso di non darsi allo snobismo: fumetti, giochi da tavolo, rievocazioni storiche in costume, serie televisive, canali youtube, gli Iron Maiden e i videogiochi sono stati argomenti di esposizione e dibattito.
Mi è toccato ad esempio di fungere da speaker nel panel “Videogames and Public History”, e posso confermare che la partecipazione è stata particolarmente calorosa e interattiva, soprattutto considerando che il tema non era dei più comuni per il pubblico accademico.
Quello che mi ha colpito di più della conferenza è stata la tranquillità e l’informalità della situazione: pur trovandosi in un contesto accademico, pur leggendo sui cartelloni dei programmi nomi di calibro smisurato, tutto si è svolto all’insegna di un’amichevolezza e di una positività che raramente ho osservato nelle aule universitarie frequentate.
La Public History rappresenta una disciplina dalle potenzialità sconfinate, e allo stesso tempo uno strumento validissimo con cui il pubblico può tornare a riappropriarsi della propria storia, della propria identità, della propria vita intrecciata con il passato e proiettata verso il futuro.
Aldo Giuseppe Scarselli
Per approfondire:
- Thomas Cauvin, Public History: a textbook of practice, (Routledge, 2016)
- Faye Sayer, Public History: a practical guide, (Bloomsbury, 2015)
- Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertuccelli, Alfonso Botti, Public History: discussioni e pratiche, (Mimesis, 2017)
- Maurizio Ridolfi, Verso la Public History: fare e raccontare storia nel tempo presente, «Le ragioni di Clio», n.7 201
(Crediti immagine di copertina: Lisa Gilbert)