1968, la prima, densa settimana: cronaca di una miccia che brucia

1968

Piccole zanzare fiaccano colossali elefanti, ritratti di giovani guerriglieri venerati come icone religiose nei cortei, inconcepibili solidarietà con paesi lontani, lontanissimi in chiave antagonista; negri che non ne possono più di essere chiamati negri, quartieri off-limits e polizia che si munisce di arsenali da guerra, maree di giovani che – orrore – non vogliono seguire l’esempio degli adulti e rifiutano di obbedire. Benvenuti nel 1968.

«Sta accadendo qualcosa qui, ma non sai cosa sia, non è vero Mr. Jones?»

Tante inquietudini e tante tensioni accumulatesi nel corso di circa un decennio si affacciano e avvampano nel nuovo anno 1968: come tanti focolai sparsi, divampati in tempi e in posti diversi, consumano una miccia sempre più corta e che solo più tardi si sarebbe scoperta più esplosiva e globale di quanto fosse lecito aspettarsi.
A dirla tutta, qualcuno che provava a buttare dell’acqua sul fuoco già c’era: le Nazioni Unite si accingevano a celebrare il ventennale della Dichiarazione universale dei diritti umani e fervevano i preparativi per la prima conferenza mondiale sul tema; papa Paolo VI aveva promosso il 1° gennaio 1968 come I Giornata della pace e nella sua omelia di quel lunedì – paradossale casualità che ha voluto che un inizio anno così “ordinato” dovesse coincidere con un anno così turbolento – non aveva mancato di ricordare che

“La pace […] oggi non esiste, in varie parti del mondo, e in particolare in una regione da noi spazialmente remota, ma tanto spiritualmente vicina, voi ben sapete che Noi alludiamo al Viet-nam.

Già, il Vietnam; con ogni probabilità uno tra i focolai più minacciosi nei pressi del quale giaceva la miccia.
A partire dagli anni ’60 la presenza militare USA si era fatta sempre meno discreta nel conflitto tra Vietnam del Sud filo-atlantista e Vietnam del Nord comunista, fino a trasformarsi in un intervento aperto che aveva seguito
un’escalation continua di uomini e mezzi dispiegati. La guerra costa morti, feriti e tanti soldi, non produce risultati concreti apprezzabili e, soprattutto, diventa in breve tempo sempre meno popolare: non male, per il primo conflitto in mondovisione.
Eppure, in occasione dell’annunciata Giornata della pace, i due fronti scendono a un mite compromesso: 36 ore di cessate il fuoco, abbastanza da permettere agli americani di festeggiare l’anno nuovo, quel 1968 che – stando ai più ottimisti funzionari USA – avrebbe sancito la vittoriosa conclusione del conflitto contro quei dannati rossi.

New York Times, 1 gennaio 1968

Tra l’1 e il 2 gennaio l’esercito nordvietnamita e reparti vietcong decidono però che si è festeggiato abbastanza e fanno partire un’offensiva che coglie tutti di sorpresa. Mancherebbero ancora 6 ore alla fine del cessate il fuoco, ma sono dettagli evidentemente trascurabili – e poi, è il caso di aspettarsi un così ligio rispetto dell’appello di un’autorità spirituale da parte di armati e risoluti materialisti dialettici?
Ironia a parte, l’attacco sarà una disfatta per i vietnamiti del nord, ma sortirà un effetto non indifferente: dare valore concreto al messaggio per l’anno nuovo del leader comunista Ho Chi Minh, il quale aveva profetizzato che il 1968 sarebbe stato un anno di disorientamento e confusione per gli «aggressori statunitensi». Non è che l’antipasto prima del piatto forte, che verrà spietatamente servito poco più avanti durante un altro cessate il fuoco, quello previsto per il capodanno vietnamita del Têt.

L’effige del Che su un francobollo cubano, 1968

Quello smacco dà e toglie ottimismo: lo sottrae agli americani e ai loro sostenitori, lo restituisce a tutti quelli che hanno preso le parti del Vietnam del Nord, facendo della sua lotta per l’indipendenza il simbolo della lotta all’imperialismo, scandendo il battagliero slogan «creare due, tre, molti Vietnam» lanciato di fresco l’anno prima da Che Guevara.
A proposito del Che, una delle novità di quel primo giorno dell’anno 1968 – che a Cuba coincide peraltro con la Festa della Liberazione – fu un suo murale alto venti metri in Plaza de la Revolución a L’Avana. Morto un paio di mesi prima in Bolivia, l’iconica immagine del suo fiero volto, unita spesso e volentieri al suo famoso «Hasta la victoria, siempre», comincia a diventare virale, onnipresente, anche e soprattutto al di fuori dell’isola: nella sua figura viene condensata l‘idea di guerriglia, simbolo di una rivolta e di un conflitto inarrestabili, permanenti, sempre vivi, massima e sublime coniugazione di teoria e pratica.
Che Guevara è un martire, un mito di cui già si compongono e diffondono le agiografie.

Guerriglia è anche una delle parole d’ordine che l’anno nuovo porta alla ribalta in un altro contesto, quello del conflitto arabo-israeliano.
Gli attriti tra Israele e nazioni arabe erano deflagrati nella Guerra dei sei giorni nel corso del 1967, a leccarsi le ferite furono Egitto, Siria e Giordania; tra i gruppi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) si era incominciato a rumoreggiare.
Tra fine 1967 e inizio 1968 emerge sempre più forte all’interno dell’OLP la formazione al-Fatah, capeggiata da Abu Amar – più noto come Yasser Arafat – e decisa ad adottare contro Israele la tattica della guerriglia.
Il vocabolario e il prontuario politico del 1968 così accoglieranno presto un nuovo termine, «palestinese»: già diffuso precedentemente, cessa ora di indicare semplicemente un luogo di nascita e si arricchisce del più pregnante ed evocativo significato di arabo che lotta per l’autodeterminazione del proprio popolo oppresso; un’altra causa a cui unirsi, da fare propria.

Proteste a Washington DC, 1967

La miccia corre attraverso un Terzo Mondo in subbuglio e tanti altri sarebbero i focolai che rosicchiano la miccia che si potrebbero citare. Il terzomondismo, quella paradossale logica di identificazione con cause e battaglie per lo più semisconosciute in ragione del loro semplice opporsi al colonialismo e all’imperialismo, è materiale altamente infiammabile: mostra la peggiore faccia dei modelli di civiltà che si sono imposti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, quelli che hanno sconfitto i “cattivi” e che sembrano ora, soprattutto agli occhi dei loro figli, altrettanto violenti, brutali e oppressivi.
Ed è proprio durante la notte dell’ultimo giorno dell’anno 1967 che un gruppo di giovani fonda – pare al termine di una festa tutta alcol e droga – il velleitario e provocatorio Youth International Party, il cui acronimo viene subito goliardicamente sviluppato in Yippie!, occhieggiando e politicizzando così quella controcultura
hippy che aveva per prima messa sul banco d’accusa non solo la guerra, ma anche la cultura e la società che la produceva.

Fiumane di movimenti pacifisti conquistavano le piazze e le strade, si moltiplicavano i fenomeni di renitenza alla leva, il 1968 non avrebbe invertito la tendenza.
Un caso notevole era anzi esploso l’anno precedente quando anche il campione dei pesi massimi Muhammad Ali aveva rifiutato il servizio militare con due semplici argomenti: primo, ragioni di coscienza gli impedivano di uccidere un altro uomo, secondo, di certo non sarebbe mai andato a combattere e a sparare a chi non lo aveva mai discriminato in quanto «negro».
Le autorità non la prendono bene.
Ali verrà multato, condannato a cinque anni (che eviterà pagando una cauzione), privato del titolo, della licenza di pugile e persino del passaporto. Montante e gancio sono però andati a segno: Ali diventa istantaneamente un’icona in cui si coniugano sia l’opposizione alla guerra in Vietnam che le istanze del movimento per i diritti civili, i focolai più minacciosi che si sviluppano intorno alla miccia sul suolo USA.

Già che abbiamo citato la questione, non sarà superfluo segnalare che nel vocabolario e nel prontuario politico del 1968 fa la sua comparsa anche il termine «neri», che cessa di essere una terminologia rara, confinante col poetico, per indicare la comunità afroamericana, e si sostituisce a «negri», che da allora assume carattere dispregiativo: sono quelli che restano passivi, che chinano la testa, che non agiscono.
Un passaggio semantico cui hanno contribuito – oltre ai vari Martin Luther King e Malcom XStokely Carmicheal, il gruppo «Black Panthers» e lo slogan «Black Power».
La non-violenza di King era stata ormai sorpassata dai proiettili e dalla rabbia da diversi anni, e non accennava a smettere, nonostante il 1968 si fosse aperto con Robert Clark tra i banchi della Camera del Mississippi, primo nero a entrarvi dal lontano 1894.
Il Black Power quell’anno si impressionerà però in maniera indelebile nei pugni neri e le teste basse di Tommie Smith e John Carlos sul podio di Città del Messico, incorniciati da uno stadio silente; il tutto sempre in mondovisione, tanto per non farsi mancar nulla.

Tutt’altra tendenza in Francia, dove il discorso di fine anno di Charles De Gaulle sarà invece inaspettatamente sereno, ottimista.
Le Général, così lo chiamano, è allora con ogni probabilità il capo di Stato con maggiori poteri di tutte le democrazie occidentali, nutre grandi ambizioni per sé e per il Paese, prova a ringalluzzire l’orgoglio patriottico dei francesi parlando come un padre ai figli. Cessati i toni aspri contro gli odiosi americani, egli sogna di diventare mediatore di pace in Vietnam e in Medio Oriente, proprio lui che aveva sostenuto l’intervento nella fu Indocina francese (primo trionfale banco di prova per l’Ho Chi Minh di cui sopra) e in Algeria – due sonore débâcle, più difficili da digerire di una generosa portata di aligot.
Roba oramai datata: a distanza di tempo De Gaulle non riesce a scorgere né miccia né focolai in una Francia che vede sempre più prospera e benestante. Tra i motivi d’orgoglio, pensa un po’, c’è anche l’aumento delle iscrizioni alle università, quelle stesse università che gli esploderanno tra le mani da lì a maggio.

1968 - Brežnev e Dubček in rapporti ancora cordiali
Brežnev e Dubček in rapporti ancora cordiali

Il corso della miccia prosegue però anche al di là della cortina di ferro, dove gli stessi fermenti e le stesse inquietudini alimentavano altrettanti focolai. L’URSS di Brežnev è in difficoltà, ma riesce a mantenere la barra: mai avrebbe sospettato di dover correre i maggiori rischi con la fedele Cecoslovacchia, governata dal 1957 dall’ortodosso Novotný.
Eppure la situazione andava facendosi incandescente anche lì, tra il crescente dissenso di studenti e intellettuali e le istanze degli slovacchi che proprio non volevano saperne di farsi cancellare. Novotný non ha il polso giusto per affrontare la situazione, ondeggia tra minacce e conciliazione, perde appoggi e infine viene destituito dalla carica di segretario del partito.
È il 3 gennaio 1968, un paio di giorni dopo verrà sostituito, ironia della sorte, dallo slovacco Dubček, che conoscono ancora in pochi e che nemmeno Mosca osteggia.
Sarebbe stato presto sulla bocca di tutti, insieme al passaggio di primavera che cercherà di far soffiare sulla Cecoslovacchia e che tanti contraddittori entusiasmi e speranze saprà calamitare.

“Sta accadendo qualcosa qui, ma non sai cosa sia, non è vero Mr. Jones?

La prima settimana del 1968 trascorre così: turbolenta e intensa, perfetta ed emblematica ouverture dei mesi avvenire. La combustione della miccia già prelude all’esplosione.

doc. NEMO

Per approfondire:

  • Mark Kurlansky, 1968. L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mondadori, Milano, 2005
  • Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1988
  • Massimo Bontempelli, Il Sessantotto. Un anno ancora da capire, CUEC, Cagliari, 2008
  • Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma, 2005
  • Il sessantotto, e dopo?, a cura di Marica Tolmelli, «Storicamente», vol. V, 2009
  • La primavera di Praga. Immagini e documenti del Fondo Pelikan, vol. I, Documenti e memorie, Camera dei Deputati – Archivio Storico, Roma, 2008

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