Le bizzarrie di Vittorio Amedeo II, il Savoia che divenne re

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È notte. Per le strade della Torino di inizio Settecento si aggira furtivamente un vecchio che origlia con insolito interesse i discorsi delle persone e offre da bere nelle locande, sollecitando discussioni sulla politica del sovrano.
A un certo punto, scorge una luce provenire da una soffitta e, desideroso di sapere chi sia così zelante da protrarre fino a tarda ora il proprio lavoro, bussa alla porta.
Gli apre uno studente di diritto, ancora chino sui libri.
Il vecchio lo incalza con una serie di domande e rimane a tal punto impressionato dalle acute risposte del giovane che decide di prenderlo con sé come suo collaboratore.

L’anziano errante altri non è che Vittorio Amedeo II di Savoia, principe di Piemonte, che – secondo un aneddoto raccontato da Giovanni Bogino, ministro sotto Carlo Emanuele III – avrebbe avuto l’abitudine di percorrere di notte le vie della capitale per ascoltare in incognito le opinioni dei sudditi sul loro sovrano.
L’episodio rivela anche molto della personalità del re, inflessibile accentratore del potere: sceglieva i suoi ministri solo dopo averli messi alla prova e poi ne aizzava gli antagonismi, consultandoli sempre in separata sede.

La condotta assolutistica di Vittorio Amedeo permise, tuttavia, al piccolo ducato piemontese di ritagliarsi uno spazio di primo piano sulla scena politica italiana. Nella guerra di successione spagnola (1702-1713), il sovrano piemontese, abile dissimulatore, si alleò prima con lo storico nemico Luigi XIV, ma poi si schierò dalla parte di austriaci, inglesi e olandesi.
La mossa si rivelò azzeccata: alla pace di Utrecht i Savoia furono investiti del titolo regio e ottennero diversi vantaggi territoriali. «I Savoia non finiscono mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’hanno iniziata», osservò Luigi XIV con un giudizio profetico che presagiva quanto poi sarebbe avvenuto nelle due guerre mondiali.

La mutevolezza era parte del carattere instabile di Vittorio Amedeo, non a caso soprannominato dai francesi “Proteo”, come la divinità mitologica greca in grado di cambiare forma e aspetto in qualsiasi momento. Volubile e irascibile, il re sfogava la sua irrequietezza sia nel lavoro, assolvendo con scrupolo ai compiti di governo, sia in battaglia, dove si poneva direttamente alla testa delle sue truppe, come durante l’assedio di Torino del 1706, rimasto nella memoria per l’eroico sacrificio di Pietro Micca.

Vent’anni di guerre contro la Francia trasformarono il Piemonte nello Stato più militarizzato d’Europa dopo la Prussia. Vittorio Amedeo si sforzò di modernizzare il regno non solo attuando poderose riforme, ma anche incentivando lo sviluppo urbano di Torino grazie ai progetti dell’architetto Filippo Juvarra.

Il rinnovamento dello Stato sabaudo si scontrò però con la Chiesa cattolica. Vittorio Amedeo non se ne fece intimorire: considerava le questioni religiose e la fede da un punto di vista prettamente utilitaristico, e la sua stessa spiritualità era piuttosto tiepida. Tuttavia, celava un lato superstizioso. Domandava responsi a maghi, astrologi e indovini persino in materia di politica estera, sperando in questo modo di anticipare le intenzioni delle nazioni straniere. Avviò una corrispondenza con l’astrologo Giobbe Fortebraccio, un imbonitore che saltava da una corte italiana all’altra, e ascoltava le predizioni di una monaca visionaria di Torino.

La superstizione di Vittorio Amedeo si amplificò nel 1715, alla morte per vaiolo del principino Vittorio, il figlio, allora ancora sedicenne, designato a ereditarne il trono. Il re, che aveva riversato tutto il suo affetto e le sue attenzioni sul primogenito, vagò per una settimana per le stanze del Palazzo Reale ostaggio di una disperata pazzia e si placò solo dopo aver maciullato con la spada il suo cavallo. I Savoia si convinsero che una strega avesse lanciato un maleficio contro il principino, visto che già in passato avevano ritenuto di aver subito altri attentati “magici”.

Ad esempio, nel 1709 un detenuto fu accusato di aver fabbricato una statuetta di cera con le fattezze di Vittorio Amedeo per nuocere alla sua salute, e per questo fu condannato a morte per impiccagione in piazza delle Erbe. Prima dell’esecuzione, l’uomo fu costretto a fare pubblica ammenda e a vedersi applicate delle tenaglie infuocate affinché l’anima si scindesse dal corpo. In seguito, il cadavere fu squartato in quattro pezzi, ciascuno appeso a una delle quattro porte di Torino, e la testa fu posta su una colonna per infamare per sempre il suo nome e quello dei figli.

Inoltre, nel 1717 una certa Clara Ribolletta denunciò la presenza di un’armata di tre milioni di stregoni in Piemonte formata anche da eminenti personaggi, come il governatore di Torino e il principe di Carignano, tutti impegnati in una cospirazione per sovvertire la monarchia. Ben presto le autorità decisero di insabbiare questi casi per evitare che proliferassero.

Dopo la morte del principino, Vittorio Amedeo accettò con disappunto che il trono sarebbe stato un giorno ereditato da Carlo Emanuele, da lui chiamato Carlin, il figlio gobbo, gracile e sgraziato che aveva sempre trascurato. Lo spediva a stendere minuziosi rapporti sulle fortezze che presidiavano il territorio, pretendendo resoconti perfino sul rancio consumato dai soldati, e se il figlio non adempiva con rigore al suo compito, Vittorio Amedeo lo puniva umiliandolo di fronte ai suoi ministri.

Carlo Emanuele si dava una gran pena per compiacere il padre, dallo studio agli esercizi ginnici per migliorare il fisico esile, ma, anche nel corso della maggiore età, la sua libertà personale era limitata dall’austera sorveglianza paterna. Dopo aver conferito con i propri ministri, il re interrogava il figlio su ogni decisione presa, e questi biascicava imbarazzato solo poche parole. Allora Vittorio Amedeo gli spiegava con insofferenza i motivi delle sue decisioni, soprattutto in merito alla gestione delle finanze dello Stato.
Il re, infatti, era ossessionato dai soldi: era giunto al punto di controllare personalmente la dose di carne servita nei pasti, le spese di lavanderia, la scelta dei vini e persino la quantità di legna che veniva acquistata per riscaldare le sue residenze nei mesi invernali, che in questo modo ai visitatori apparivano fredde e desolate.

Un rapporto così conflittuale non poteva che infiammare il passaggio della successione al trono. Nel 1730 uno stanco e malato Vittorio Amedeo abdicò in favore del figlio e si ritirò a Chambery, ma, nonostante le rassicurazioni, non smise di interessarsi agli affari di Stato.

Nel 1731 le sue condizioni mentali, a causa di un colpo apoplettico, peggiorarono. Insoddisfatto del governo del figlio, che definì un «imbecille», si precipitò al di qua delle Alpi con il proposito di riprendere il potere e di scongiurare così immaginarie congiure di corte. Affermò che l’atto di abdicazione era nullo e che si sarebbe appellato all’imperatore d’Austria perché gli fosse restituita l’autorità regia.
Benché titubante, Carlo Emanuele, temendo una guerra civile e un’invasione straniera, non vide altra soluzione che firmare l’ordine di arresto per il padre: Vittorio Amedeo fu prelevato nel castello di Moncalieri e rinchiuso in quello di Rivoli. Per coprire lo scandalo, il ministro Ormea creò ad arte la storia di un complotto contro Carlo Emanuele di cui il vecchio re era stato lui stesso vittima.

Vittorio Amedeo morì l’anno seguente, ormai privo di lucidità mentale. Sotto Carlo Emanuele, invece, il Piemonte continuò quell’opera di consolidamento sullo scacchiere politico che l’avrebbe condotto, nel secolo seguente, a unificare l’Italia.

Jacopo Di Miceli 

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