
Nel 1993 avevo 24 anni. Non avevo alcuna esperienza da inviato in zone di guerra. L’esperto era mio papà, che in quel periodo era però in Nepal per una spedizione con Gnaro Mondinelli.
Il Vaticano voleva raccogliere una dichiarazione del vescovo di Mostar: l’addetto stampa del Vaticano a quel punto cerca di mettersi in contatto con mio padre. Essendoci l’embargo per i giornalisti, era necessaria una persona capace di raggiungere il vescovo di Mostar, che era segregato nella sua residenza.
Vista l’assenza di mio padre, l’addetto stampa mi chiede chi altro possa andare. Io ci penso cinque minuti e, dopo aver chiesto il permesso immancabile della mamma, rispondo che sarei andato io.
Partii da Ancona, direzione Spalato, in nave. Ero accompagnato da un sacerdote, Don Modesto Platini, abituato ad avventurarsi in spedizioni umanitarie: viaggiammo di notte. Don Modesto è purtroppo mancato qualche anno fa, ma quell’esperienza ci legò per anni e lo ricordo ancora oggi con grandissimo affetto.
A Spalato già si vedeva la guerra, con milizie armate per la città. Da lì sono partito verso Medjugorie, perché era una città “sicura”. Nonostante questo, per raggiungerla era necessario passare decine di posti di blocco. Viaggiavo “in incognito”, come addetto della Croce Rossa.
Tutto il materiale video e audio (due borse con la videocamera 8mm e la macchina fotografica Reflex) era nascosto nei vani della macchina: l’embargo era una cosa seria, nessun giornalista o fotoreporter poteva entrare in tutta la ex Jugoslavia da mesi.
Arrivammo a Medjugorie solo nel pomeriggio, nonostante i chilometri da Spalato fossero pochi. Fummo ospitati da una famiglia composta da una madre e due figli, di sei e quattro anni. Il papà e il nonno erano al fronte. Ovviamente non c’erano né luce né acqua. Anzi, no, la luce c’era mezz’ora al giorno.
Medjugorie era la mia “base operativa”: a Mostar, visti gli scontri, era impossibile trovare una sistemazione. Perfino i Caschi Blu si tenevano fuori dalla città.
La sera cercavo di rientrare nella mia normalità di ventiquattrenne, cercavo di isolarmi ascoltando il mio walkman, ma era impossibile. Anche a distanza di chilometri, gli spari dei mitra e dei mortai erano troppo forti.
Per avvicinarsi a Mostar i posti di blocco erano sempre più problematici. Tanto per capirci: spalle al muro con mitra spianato e macchina svuotata del tutto. Per andare a Mostar usavo una macchina della Croce Rossa Internazionale, una Lancia Delta HF, soprattutto perché speravamo che in questo modo i cecchini si sarebbero fatti qualche scrupolo: infatti la strada che portava a Mostar era sotto facile tiro.
Due volte mi è capitato di veder esplodere una macchina a 200 metri dalla mia, perché i cecchini avevano sparato al serbatoio.
Altre volte invece capitava di vedere un Leopard (un carro armato, NdR) che ti puntava con il cannone della torretta. La torretta girava e il cannone ti seguiva. Non è una cosa molto carina.
Ci accompagnava la coordinatrice italiana della Croce Rossa Internazionale.
Oltre all’intervista con il vescovo, ci serviva del materiale audio e video che testimoniasse le condizioni di Mostar. Infatti all’epoca circolava pochissima documentazione, visti gli strumenti tecnologici del tempo.
In particolare ci interessava filmare le condizioni drammatiche dell’ospedale, che trattava i pazienti in mezzo a enormi problemi di igiene, soprattutto considerando le gravi condizioni dei pazienti: mutilati di guerra e feriti gravi. E anche il personale era allo stremo, viste le interminabili ore di lavoro a cui erano sottoposti.
Il primo giorno avrebbe dovuto essere di sopralluogo all’ospedale. L’impatto è stato devastante. In quella guerra si usavano armi non convenzionali e dalle ambulanze uscivano corpi dilaniati dalle bombe a grappolo. I pazienti erano ricoverati nei sotterranei dell’ospedale.
Non ho avuto il coraggio di fare nessuna ripresa o fotografia: la situazione era troppo drammatica.
Uscendo dall’ospedale ho sentito l’inizio dei bombardamenti: era cominciata la distruzione del Ponte di Mostar. Avevo la dubbia fortuna di essere presente alla distruzione di uno dei maggiori simboli della storia dei Balcani.
Non male, come primo giorno.
Quella sera sono andato al Santuario di Medjugorie. Certamente ero influenzato dai fatti del giorno, ma mi ha trasmesso una sensazione di pace, come se fosse una campana di vetro, che isolava da tutte le cose esterne.
Una mattina – deve essere stato il terzo giorno da inviato – al centro delle Nazioni Unite alla periferia di Mostar, dove passavo tutti i giorni per raccogliere informazioni, mi arrivò un fax. Non ho mai capito come possa essere riuscito ad arrivare. Era un fax di mio padre dal Nepal. Mio papà era una persona di pochissime parole e pochissimi complimenti. Quella volta mi scrisse: “Sono orgoglioso di te. Renato”.
I giorni seguenti ho girato nei dintorni di Mostar per documentare la situazione. Mi sono anche aggregato a una brigata dell’esercito croato per una mezza giornata.
Un giorno il mio contatto della Croce Rossa mi ha chiesto di andare a documentare un atto di pulizia etnica compiuto dai serbi. Da chilometri di distanza si sentiva l’odore nauseante della carne bruciata. I soldati di Milosevic avevano assaltato un convento violentando tutte le suore e mutilando i frati. Successivamente fecero una pira che “testimoniasse il loro passaggio”.
Non c’era limite alla violenza. I corpi, circa 50, erano impacchettati nella carta d’alluminio e carbonizzati. Fortunatamente non avevo niente in corpo e non sono riuscito a vomitare.
Di questa scena vi mostro solo questa foto, le altre non è il caso.
Per non farsi mancare niente, in quella zona c’erano stati enormi alluvioni (anche in posti mai toccati prima da eventi simili) ed intere zone erano allagate al punto che la popolazione si spostava su enormi chiatte d’emergenza.
Vicino a Mostar c’era una situazione assurda: un gruppo di circa cento bambini sequestrati dai serbi in un cortile. Quotidianamente i cecchini uccidevano uno o più di questi ostaggi per puro divertimento.
Le mamme dei bambini attuarono un atto di protesta, sperando in una qualche attenzione da parte della comunità internazionale: costruirono un muro con i nomi dei figli presi in ostaggio, proprio fuori dalle sedi degli organi internazionali. In nero erano scritti i nomi dei ragazzi morti, in bianco di quelli ancora vivi.
Una notte, insieme ad un inviato della Reuters, ci siamo intrufolati nel cambio turno al fronte e abbiamo passato ore con i soldati in mezzo ai sacchi di sabbia. È stata un’esperienza talmente assurda che è difficile da raccontare: si perde la cognizione del freddo, della fame, della sete, del tempo.
L’adrenalina è talmente alta che pensi solo che sei in prima linea, e non è un film.
Non saprei più dire se sono stato 15 o 21 giorni nella zona, il tempo non importava più. Ho perso sette chili: era difficilissimo trovare qualcosa da mangiare.
Gli ultimi giorni li spendemmo per cercare di organizzare l’incontro con il vescovo. Era molto complicato, la zona era sotto continuo bombardamento serbo.
L’ultimo giorno, presi dallo sconforto, abbiamo chiamato il segretario del vescovo: al telefono si sentivano i rumori dei bombardamenti, ma decidemmo di fissare ugualmente l’incontro.
La ragazza della Croce Rossa mi disse una frase che non dimenticherò mai: “Non ti preoccupare Renzo, fin quando sentiamo il fischio della granata vuol dire che non c’è problema: vuol dire che ci ha sorpassato”.
La cosa non mi rincuorava tanto: “E se non lo sento?””, pensavo.
Arrivati al duomo di Mostar, residenza del vescovo, lasciamo la macchina in un posto sicuro. All’entrata della chiesa troviamo un missile terra-terra lungo cinque metri, inesploso in una vetrata. Sembrava un simbolo della forza dell’amore sull’odio: è difficile che un coso del genere non esploda.
Finalmente riuscii a incontrare il vescovo, che fece un accorato appello alla comunità internazionale affinché intervenisse per interrompere il massacro. Anche perché fino a quel punto le Nazioni Unite avevano avuto solo una funzione di monitoraggio, non erano intervenute nel conflitto. E poi nell’opinione pubblica europea ed internazionale non c’era consapevolezza della portata del conflitto, non si sapeva dei terribili episodi di pulizia etnica che venivano compiuti.
Anche in seguito all’intervento del Vescovo la situazione successivamente cambiò, e lo stesso Papa si pronunciò sul conflitto. L’attenzione mediatica su quella guerra cambiò radicalmente.
In realtà solo dopo anni mi sono reso conto di quanto importanti fossero quelle riprese, all’epoca capitò tutto troppo in fretta. L’anno prossimo saranno vent’anni da questa mia esperienza e mi piacerebbe tornare in quei posti che adesso sono molto più “ospitali”.
Il mio sogno è quello di incontrare nuovamente la famiglia che mi ospitò in quei giorni: non ho saputo più niente di loro, neanche se il nonno e il papà di quei bambini sono mai tornati dal fronte.
Renzo Andorno
(testo raccolto da Domenico Cerabona)
@DomeCerabona