La sindrome di Boris: ovvero, del perché in Italia non siamo capaci a fare Serie TV

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“… Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte.”

Perchè in Italia non riusciamo a fare i telefilm? Come è possibile che nei paesi anglosassoni si stia assistendo da alcuni anni ad una vera e propria rinascita artistica del medium televisivo, valorizzato da una programmazione incredibilmente ricca e di alto livello, e questa rivoluzione non tocchi minimamente la situazione del nostro mercato audiovisivo?

Il fatto che, in questo momento, la televisione sia meglio del cinema, è un fatto condiviso da una larga maggioranza di pubblico e critica. Mi riferisco però alla situazione americana, ovvero a quella che conta (anche solo per un fatto meramente economico).
Grazie alla crescita di canali via cavo come HBO e AMC, unita all’esplosione di realtà come Netflix e ai competitor che genererà nei prossimi anni, i professionisti del settore preferiscono sempre più orientarsi verso la televisione piuttosto che il cinema. Scrittori, registi e attori che prima snobbavano simpaticamente il piccolo schermo, ora fanno a gara per partecipare alla prossima stagione di True Detective.   

Non in Italia: se qui il cinema sta male, la televisione generalista sta peggio. È un malato terminale che i suoi padroni stanno mantenendo da tempo in un regime di accanimento terapeutico, non ha le forze o la voglia di espandere i suoi orizzonti e cambiare una virgola dei suoi meccanismi.
Chi conosce Boris, la serie televisiva trasmessa da Fox negli scorsi anni, potrebbe portarla ad esempio di “eccezione alla regola” nel panorama italiano: un piccolo prodotto di nicchia che è rapidamente diventato piuttosto popolare e ha offerto, nei suoi alti e bassi, una cifra qualitativa molto al di sopra della media nazionale.
Mi ha sempre fatto sorridere il pensiero che il migliore (l’unico?) esempio di telefilm italiano valido è una sit-com che parla di quanto la televisione italiana faccia schifo.

E fidatevi, la televisione italiana fa schifo. Ho parlato con sceneggiatori di Mediaset che mi spiegavano che il canale più visto nel nostro paese resta e rimarrà sempre Rai 1, perchè è il primo pulsante sul telecomando e i vecchietti non vogliono confondersi a cambiare canale.
Ho ascoltato importanti produttori affermare sconsolati che non si può fare nulla di diverso, perchè l’anno scorso le repliche di Don Matteo hanno fatto più ascolti del maggior successo americano in Italia (Dottor House).
Perchè il nostro pubblico guarda più volentieri le repliche delle fiction che i telefilm delle reti via cavo americane, mentre dall’altra parte del mondo Mad Men e Breaking Bad fanno record di ascolti? Perchè, per dirla alla René Ferretti, “un’altra televisione in Italia è impossibile”?

Semplicemente, perchè è cattivo businnes. Il dato è questo: da Rai 1 a La7, passando per Mediaset, i sette principali canali televisivi hanno smesso da tempo di cercare nuovi target. La televisione è un prodotto consumato dalla fascia over 60, e i network generalisti non hanno più manifestato interesse nell’espandersi.
Il pubblico di riferimento resta da anni il medesimo, ed è precisamente quello su cui Rai e Mediaset si rannicchiano, fiduciosi che l’aumento della speranza di vita mantenga ancora a lungo l’unico pubblico a cui è lecito ambire.
Il rischio imprenditoriale legato alla possibilità di aprirsi a nuovi mercati è considerato troppo alto, tant’è che alla Rai esiste un intero canale (Rai 2) dedicato alla “rottamazione mascherata” dei prodotti rischiosi.

Rai 2 è il cimitero degli showrunner, e gli scrittori lo temono come il tristo mietitore: i fratelli Manetti hanno visto il loro gioiellino personale, “L’ispettore Coliandro”, massacrato da ascolti bassi e cambi improvvisi di palinstesto, e se una cosa per sbaglio funziona la si sposta subito sull’Uno. Rai 2 è il canale delle serie tv americane, che non devono fare ascolti perchè poi si rischia di doverle davvero acquistare e mandare in onda seriamente.

Il quadro generale è abbastanza semplice: se alla Rai vige il codice più ferreo del conservatorismo votato al dio dello status quo, dall’altra parte della carreggiata (Mediaset) si punta sul tradizionalismo “colorato da giovane”. Un esempio illuminante: ai tempi, la Rai rifiutò “I Cesaroni”, l’adattamento italiano di un format spagnolo, perchè lo riteneva troppo rischioso e rivolto a un pubblico giovane.
Mediaset, d’altra parte, si fa tradizionalmente meno problemi ad abbracciare prodotti più populisti e meno “democristiani”, che ogni tanto si fanno scappare la gag omofoba, la cafonata da bar e i rutti di Amendola.
“I Cesaroni” è “Un medico in famiglia” più dozzinale e operaio, laddove la Rai insegue ancora la chimera del ceto medio benpensante.

Con questa premessa, è facilmente leggibile il successo della risposta Rai alla soap con Amendola, quel “Tutti pazzi per Amore” (altro format acquistato dall’estero) chiaramente fiero del suo puntare più in alto: si rivolge al pubblico un po’ più colto e benestante, che apprezza Marcorè e la Littizzetto più dei comici di Colorado.
Malgrado le diverse visioni, contenuti e “ideologie”, i target di riferimento di Rai e Mediaset restano drammaticamente simili: inutile cambiare, inutile pensare a prodotti che siano all’altezza degli utenti dello streaming e dei torrent.

Il terreno culturale di quel genere di pubblico è semplicemente non-replicabile in Italia: nessuna produzione, distribuzione o network generalista che io abbia mai incontrato ha le risorse economiche o intellettuali per puntare a quel target.
Da un punto di vista di rischio imprenditoriale, per un manager della Rai puntare a fare la televisione americana sarebbe una follia, e anzi si deve garantire che ogni tentativo in quella direzione fallisca clamorosamente. Coliandro e Nero Wolfe non dovrebbero esistere, e se sono trasmessi è solo per manifestarne il fallimento.
L’unica regola del gioco è la continuità, la tradizione, la fiducia nel proprio bacino d’utenza consolidato.

Dall’altra parte del mondo, Mark Gatiss e Nick Pizzolatto decidono di volta in volta se vogliono scrivere un capolavoro, o solo una cosa bellissima. Benedict Cumberbatch e Jon Hamm diventano gli attori più desiderati al mondo, Game of Thrones offre intrattenimento consistentemente più valido di tutti i fantasy cinematografici degli ultimi livelli.
C’è chi ha educato il suo pubblico con Mad Men, e chi si è assopito davanti a “Distretto di Polizia”. Non è una questione di snobismo anglofilo o elitarismo, perchè il colpevole non è il popolino di turno che “ne vuole sempre di più”; quel popolino sta invecchiando e sparendo, e la televisione italiana generalista intende inseguirne gli ultimi vagiti.

É la Sindrome di Boris: la serenità nello scendere a patti con la propria mediocrità, e spendersi per tirare avanti alla giornata piuttosto che verso un’innovazione rischiosa e immensamente complessa. Pur con i suoi difetti, i suoi cedimenti alla comicità autoreferenziale e compiaciuta nonché il tentativo disastroso di “Boris: il film”, la serie di Fox ha sempre eccelso in un punto: servire da metafora caustica del Paese in cui è ambientata.

Davide Mela
@twitTagli
 

 

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